Gervaso

È il fratello di Tonio, l'amico cui Renzo si rivolge perché lo aiuti nel "matrimonio a sorpresa": è un po' tardo di mente e vive col fratello nella stessa casa, in cui giunge Renzo (cap. VI) per invitare Tonio all'osteria. Viene proposto come secondo testimone di nozze dallo stesso Tonio e la sera seguente (VII) cena con quest'ultimo e Renzo all'osteria del paese, dove i tre sono sorvegliati dai bravi di don Rodrigo e dove lui a un certo punto parla a sproposito a voce alta, venendo subito redarguito dal fratello. Si reca poi insieme agli altri alla casa di don Abbondio, dove prende parte alla messinscena (VIII): dopo che lo stratagemma è fallito e che la stanza è diventata buia per la caduta del lume, grida e saltella come uno "spiritato" cercando l'uscita, poi se ne va velocemente insieme a Tonio. Nei giorni seguenti è minacciato dal fratello affinché non dica nulla dell'accaduto, ma l'uomo è così eccitato all'idea di potersi vantare di aver preso parte a quell'impresa che non può trattenersi dal rivelare qualche cosa (XI). Non viene detto dall'autore cosa ne sia di lui durante la peste, né viene più nominato (tranne nel cap. XXXIII, quando Renzo, tornato in paese dal Bergamasco, scambia un inebetito Tonio col fratello).

Il Conte Zio

È lo zio di don Rodrigo e Attilio, membro del Consiglio Segreto del governo milanese e influente uomo politico: viene descritto come personaggio tronfio e vanaglorioso, abile nell'arte sottile di simulare e dissimulare e capace all'occorrenza di minacciare e lunsingare pur di ottenere i suoi scopi (rappresenta il potere politico esecrato dall'autore, in quanto fondato su menzogna e finzione come nel caso del gran cancelliere Ferrer, col quale il conte zio ha più di un'attinenza). È nominato per la prima volta nel cap. XI, quando il conte Attilio manifesta il proposito di rivolgersi a lui per indurlo a fare allontanare padre Cristoforo dal suo convento e impedirgli così di intralciare i piani di don Rodrigo; compare direttamente nel cap. XVIII, allorché il nipote Attilio si reca da lui a Milano per parlargli del frate e ottenere il suo aiuto nella faccenda. Attilio è assai abile a solleticare lo zio nella sua vanità di uomo politico, ricordandogli più volte il peso degli affari di Stato (l'altro sbuffa con gesto plateale, per sottolineare le incombenze cui deve far fronte), quindi gli fornisce una versione addomesticata del contrasto fra Rodrigo e padre Cristoforo, insinuando la volgare calunnia che il frate sia invaghito di Lucia e volesse farla sposare con Renzo, sua creatura e cattivo soggetto in quanto ricercato dalla legge, mentre Rodrigo si sarebbe messo di traverso a causa di un'innocente passione per la ragazza. Il conte zio crede ad Attilio e si mostra assai irritato del fatto che il frate "temerario" si sia messo contro suo nipote, dunque accetta di intervenire per proteggere l'onore del casato, di cui Attilio affetta di preoccuparsi (egli è abile a far credere allo zio che Rodrigo voglia vendicarsi del frate, argomento decisivo nell'indurre l'uomo a prendere a cuore la questione). Reagisce con una certa stizza quanto Attilio gli consiglia di fare pressioni sul padre provinciale dei cappuccini, anche se è chiaro che seguirà il suggerimento, quindi congeda il nipote con la consueta formula "e abbiamo giudizio".
Nel cap. XIX il conte zio invita a pranzo il padre provinciale e lo fa sedere a una tavola insieme a commensali molto altolocati, parlando poi appositamente dello splendore della corte di Madrid dove lui è di casa. In seguito si apparta col prelato in un'altra stanza e inizia a parlargli di padre Cristoforo, accusandolo di essere un frate inquieto, di proteggere il famoso ricercato Lorenzo Tramaglino, di avere un passato turbolento e sospetto; parla dei contrasti sorti tra lui e il nipote don Rodrigo, arrivando a insinuare che il frate abbia dei comportamenti non adatti al suo abito e suggerendo di allontanarlo da Pescarenico per evitare problemi, onde evitare conseguenze che potrebbero coinvolgere conoscenze altolocate della famiglia. Il padre provinciale obietta che ciò sembrerebbe una punizione, ma il conte zio ribatte che la cosa sanerà la situazione prima che possa degenerare, convincendo infine il prelato il quale, osserva, potrebbe mandare Cristoforo a Rimini, dove è appunto richiesto un predicatore. Il conte zio promette che la cosa resterà fra di loro e Rodrigo non ne saprà nulla, quindi non solo non se ne potrà vantare come di una vittoria personale, ma sarà pronto a compiere un gesto di palese amicizia verso l'ordine dei cappuccini, verso cui ha peraltro molto rispetto. Alla fine del colloquio i due uomini si riuniscono agli altri ospiti, non prima però che il nobile ceda cavallerescamente il passo al padre cappuccino.
La sua morte durante l'epidemia di peste viene ricordata nel cap. XXXV, come una delle condizioni che hanno permesso a padre Cristoforo di andare da Rimini al lazzaretto di Milano per accudire gli ammalati.

Vicario di Provvisione

È il funzionario di Milano incaricato di provvedere al vettovagliamento della città, da identificare col personaggio storico di Ludovico Melzi d'Eril che ricoprì tale carica al tempo della sommossa scoppiata il giorno di S. Martino del 1628 per il rincaro del pane: compare nel cap. XIII, quando la folla in tumulto dà l'assalto alla sua casa per linciarlo in quanto lo ritiene responsabile della carestia e della penuria (ovviamente l'uomo non ha colpa di nulla, poiché la mancanza di pane è da attribuire al raccolto scarso e agli sperperi causati dalla guerra di Mantova e del Monferrato). Si tratta di un episodio storico, che Manzoni ricostruisce senza peraltro citare il nome del personaggio e descrivendo il suo salvataggio ad opera del gran cancelliere del ducato milanese, Antonio Ferrer: quest'ultimo, che è stato all'origine del tumulto con la decisione di imporre un calmiere sul prezzo del pane che è stato in seguito revocato, viene accolto bene dalla folla di cui è un beniamino e riesce poi a trarre in salvo in vicario, facendolo salire sulla sua carrozza e promettendo falsamente al popolo di condurlo in prigione (Ferrer mescola abilmente italiano e spagnolo, per confondere le idee ai rivoltosi). Quando i due sono lontano dalla folla e al sicuro, il vicario manifesta l'intenzione di dimettersi dalla carica e di rifugiarsi in una grotta o sulla cima di una montagna, lontano da quella "gente bestiale" che voleva assassinarlo, ma il cancelliere gli risponde che lui dovrà rimettersi alla volontà del re spagnolo, mostrando il suo vero volto di alto funzionario di Stato. L'episodio narrato nel cap. XIII è forse ispirato a un fatto analogo avvenuto a Milano nel 1814, quando la folla assaltò il palazzo del ministro delle Finanze nel governo vicereale francese, Giuseppe Prina, che a differenza di Ludovico Melzi venne ucciso (l'esperienza personale che Manzoni ebbe dei moti popolari nella sua gioventù influenzò il suo giudizio negativo verso simili manifestazioni, che emerge con chiarezza nei capp. XII-XIII del romanzo).

Ambrogio Spinola

È il il nobile genovese che nel 1629 sostituisce don Gonzalo Fernandez de Cordoba nella carica di governatore di Milano, dopo la sua rimozione in seguito al cattivo esito della guerra e dell'assedio di Casale del Monferrato: personaggio storico, lo Spinola (1569-1630) fu condottiero al servizio dell'arciduca Alberto, governatore dei Paesi Bassi dominati dalla Spagna, e prese parte alla guerra di Fiandra ottenendo la resa di Ostende (1604), anche se in seguito la Spagna preferì giungere a un accordo con le Province Unite. Divenuto governatore di Milano, gli fu ordinato di prendere Casale ai Francesi ma fallì nell'impresa, ritirandosi in seguito nel suo feudo di Castelnuovo Scrivia dove morì. L'autore lo introduce nel cap. XXVIII del romanzo, dando notizia del suo avvicendamento al governo milanese al posto di don Gonzalo, quindi lo nomina nuovamente nel cap. XXXI dedicato alla peste del 1629-30, allorché Alessandro Tadino e un altro commissario del Tribunale di Sanità lo pregano di assumere provvedimenti urgenti per stringere un cordone sanitario intorno alla città: lo Spinola risponde che la situazione lo affligge, ma le preoccupazioni della guerra sono più pressanti e in sostanza non prende alcuna decisione. Pochi giorni dopo, il 18 nov. 1629, ordina con una grida che si tengano pubblici festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV, incurante del fatto che un gran concorso di folla nelle strade di Milano non potrà che accrescere il pericolo del contagio, che infatti si diffonderà ampiamente nei mesi seguenti. All'inizio del cap. XXXII viene ricordato che il 4 maggio 1630, quando ormai la peste sta infuriando nella città di Milano e diventa sempre più difficile far fronte alle necessità pubbliche coi pochi denari a disposizione, due decurioni (i magistrati cittadini che si occupavano del governo municipale) si recano al campo di Casale per pregare il governatore di sospendere il pagamento delle imposte e le spese per l'alloggiamento dei soldati, nonché di concedere alla città i fondi necessari per fronteggiare al meglio la calamità. La risposta scritta dello Spinola è desolante, in quanto egli manifesta il suo dispiacere per la situazione ma non prende alcun concreto provvedimento, apponendo in calce "un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse". Il gran cancelliere Antonio Ferrer manifesta al governatore il suo disappunto in altre lettere, finché il governatore lo investe della responsabilità di far fronte alla peste, poiché lui è impegnato nelle operazioni belliche.
L'autore condanna con impietosa ironia la sua figura, simile a quella di don Gonzalo per la volontà caparbia di fare la guerra e la sordità ai problemi della popolazione a lui sottomessa, mentre viene criticata anche la storiografia ufficiale che ne ha esaltato la condotta militare e ne ha invece sottaciuto le gravi colpe nel sottovalutare il pericolo della peste e nel non assumere i necessari provvedimenti per arginare il contagio. Manzoni ricorda non senza un certo sarcasmo che lo Spinola morì pochi mesi dopo nel corso della guerra, non sul campo di battaglia ma nel proprio letto, struggendosi per i rimproveri che gli venivano mossi e che lui riteneva ingiusti (il personaggio è parte della critica al mondo del potere che attraversa l'intero romanzo, benché non abbia un vero ruolo narrativo nelle vicende dei Promessi sposi).

Il Principe Padre di Gertrude

È il gentiluomo milanese padre di Gertrude, la "Signora" che offre rifugio ad Agnese e Lucia nel monastero di Monza dove la monaca gode di ampi privilegi: la sua figura è ispirata a quella di don Martino de Leyva, conte di Monza e padre di Marianna che costrinse a diventare monaca col nome di suor Virginia Maria nel 1591, anche se il personaggio è tratteggiato dall'autore con ampia libertà romanzesca e il suo nome non viene mai fatto. Compare nei capp. IX-X durante il flashback che narra il passato di Gertrude e nel quale il principe ha un ruolo da protagonista: decide che tutti i figli cadetti devono entrare in chiostro per non intaccare il patrimonio di famiglia, destinato interamente al primogenito, dunque il destino di Gertrude è segnato prima ancora che lei venga al mondo. Quando la figlia nasce le viene imposto un nome che richiami immediatamente l'idea del convento (forse l'autore pensa a santa Gertrude, figlia del beato Pipino) e per volere del padre essa viene educata nell'idea sottintesa che dovrà farsi monaca, benché questo non le sia mai detto in modo esplicito. A sei anni colloca la bambina come educanda nello stesso convento di Monza dove poi entrerà come suora e dove può contare sull'aiuto interessato della badessa e di altre monache notabili, che infatti riservano a Gertude un trattamento di favore e la inducono a sottoscrivere la supplica al vicario delle monache per essere sottoposta all'esame necessario per indossare il velo. In seguito la giovane torna a casa per trascorrervi un mese prima di affrontare l'esame e il principe usa una vera "tortura psicologica" per indurla ad acconsentire al suo volere, senza mai entrare in argomento ma facendo in modo che Gertrude viva in una condizione di quasi isolamento, senza ricevere l'affetto e il calore dei familiari che lei desidera più di ogni altra cosa. Quando la ragazza scrive il biglietto d'amore per il paggio, il principe coglie al volo l'occasione per forzarla al passo che gli sta a cuore, dapprima rimproverandola aspramente e minacciando oscuri castighi, poi facendole capire che il solo modo per ottenere il suo perdono è rinunciare alla vita nel mondo per la quale, col suo incauto comportamento, si è dimostrata indegna (egli fa leva sulla debolezza di carattere della figlia e anche sul concetto di onore e decoro nobiliare che informa ogni suo atto). Gertrude è indotta a dare il suo consenso e da quel momento il principe la spinge sulla strada della monacazione rendendole di fatto impossibile tornare indietro, dapprima accompagnandola in una uscita pubblica al convento di Monza dove la giovane chiede alla badessa di esservi ammessa come novizia, poi assicurandosi che Gertrude superi senza incertezza l'esame col vicario (l'uomo le fa intendere che, in caso contrario, renderebbe pubblico il "fallo" commesso con il paggio). Alla fine convince la figlia ad accettare di farsi monaca promettendole una vita di privilegi nel convento, dove sarà la prima dopo la badessa e assicurandole che sarà sollevata a quella dignità non appena avrà raggiunto l'età prescritta dal diritto canonico.
Il personaggio è una delle figure più odiose e negative del romanzo, dal momento che decide di sacrificare la felicità della figlia in nome del concetto di decoro aristocratico (cosa assurda secondo l'autore, dal momento che il suo patrimonio è talmente ampio da poter essere diviso tra tutti i figli) e non esita, pur di raggiungere il suo intento, a sottoporre Gertrude a delle autentiche crudeltà psicologiche, in cui alcuni critici hanno intravisto un riferimento all'educazione gesuitica. Il principe è protagonista di uno degli episodi del romanzo in cui Manzoni usa una tecnica narrativa attenta ai risvolti psicologici e attraverso di lui svolge una sottile critica al comportamento degli aristocratici, poiché il principe è in parte responsabile dei crimini successivamente compiuti da Gertrude insieme al suo amante Egidio.

Donna Prassede

È la nobildonna milanese moglie di don Ferrante che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotta nel cap. XXV, quando ci viene detto che lei e il marito soggiornano in un paesetto vicino a quello dove Lucia e la madre Agnese sono ospiti in casa del sarto, proprio nei giorni successivi alla liberazione della ragazza. Il casato cui appartiene la nobildonna non viene citato (col consueto espediente della reticenza dell'anonimo) e l'autore la presenta come una persona estremamente bigotta, convinta di dover fare del bene al prossimo ma per puntiglio personale e senza una vera inclinazione caritatevole, per cui molto spesso si intestardisce a voler intervenire in faccende che non la riguardano, usa mezzi che non sono opportuni o leciti e talvolta impone le sue decisioni a persone che non lo richiedono e che ne farebbero volentieri a meno (la sua figura risulta a tratti decisamente grottesca). Il caso di Lucia ha destato molto interesse nei dintorni e donna Prassede esprime il desiderio di conoscere la giovane, per cui un giorno manda una carrozza a casa del sarto per condurla alla propria casa di villeggiatura: Lucia vorrebbe schermirsi, ma il sarto convince lei e la madre ad accettare l'invito e così le due donne fanno la conoscenza della nobildonna, che propone a Lucia di venire ad abitare nella sua casa di Milano dove potrà aiutare la servitù nelle faccende domestiche e sarà al sicuro dalle mire di don Rodrigo, assecondando così i desideri del cardinale che sta cercando un rifugio per la ragazza. Lucia e Agnese decidono a malincuore di accettare e così Lucia si separa dalla madre per trasferirsi a Milano (cap. XXVI), dove resterà sino allo scoppio della peste del 1630 (Renzo andrà a cercarla proprio nella casa della nobildonna, venendo a sapere che la giovane si è ammalata ed è stata condotta al lazzaretto).
La permanenza di Lucia nella casa aristocratica non è tuttavia delle più felici, poiché sin dal loro primo incontro donna Prassede si è convinta che la ragazza si sia incamminata su una brutta strada, dal momento che si è promessa al famigerato Renzo Tramaglino e dunque a un giovane ricercato dalla legge: la nobile non perde dunque occasione per cercare di far dimenticare alla ragazza quel partito così sconveniente (cap. XXVII), ottenendo il risultato paradossale di suscitare ancor più in lei il ricordo e la nostalgia del suo promesso lontano a dispetto del voto pronunciato in precedenza (per fortuna, osserva con amara ironia l'autore, la nobildonna deve fare del "bene" anche ad altre persone, quindi talvolta cessa di tormentare Lucia). L'autore ci informa che donna Prassede ha cinque figlie, di cui tre sono monache e due sposate, per cui la nobile si sente in dovere di dettar legge e intromettersi nelle faccende di tre monasteri e due famiglie, anche se qui ovviamente trova la ferma opposizione delle rispettive badesse, nonché dei generi e dei loro parenti. La sua autorità si estende illimitata nella propria casa (specie sulla servitù, formata da "cervelli" bisognosi "d'esser raddrizzati e guidati"), anche se qui donna Prassede deve scendere a patti col marito don Ferrante, il quale compiace talvolta la moglie quando si tratta di scrivere a suo nome una lettera indirizzata a un personaggio d'importanza, ma per il resto non vuole comandare né ubbidire ed è spesso tacciato da lei di essere uno "schivafatiche" e un "letterato", titolo in cui la donna mescola un atteggiamento stizzito e un po' d'orgoglio per la fama del marito. La sua morte per la peste ci viene riferita alla fine del cap. XXXVII, con l'osservazione amaramente ironica che "quando si dice ch'era morta, è detto tutto" (l'autore congeda in modo sbrigativo il suo personaggio, intento a fare il bene per capriccio personale e non certo per carità cristiana, quindi la sua scomparsa avviene senza quasi che nessuno provi pena per lei).
Nel Fermo e Lucia (III, 4) il personaggio viene dapprima presentato col nome di donna Margherita, per poi diventare in seguito donna Prassede (III, 9) mentre Margherita (Ghita) sarà la governante della casa di Milano.

Don Gonzalo Fernandez de Cordoba

È il governatore dello Stato di Milano, carica che esercitò dal 1626 al 1629 durante il dominio spagnolo in Lombardia: personaggio storico (ca. 1590-1635), fu condottiero delle forze spagnole e si distinse in Fiandra e nel Palatinato, riportando la vittoria di Fleurus; combatté al fianco di Carlo Emanuele I di Savoia nella guerra di Mantova, cingendo d'assedio Casale per poi ritirarsi nel marzo 1629, in seguito all'intervento delle truppe francesi. Fu successivamente rimosso dalla carica di governatore e divenne ambasciatore a Parigi nel 1632, partecipando nuovamente alle guerre in Fiandra e nel Palatinato.
Nel romanzo non compare mai direttamente come personaggio, anche se è spesso citato quale governatore di Milano e occasionalmente è coinvolto nelle vicende di fantasia dei protagonisti: nel cap. XII l'autore ricostruisce le cause della carestia che affligge il Milanese e ricorda che don Gonzalo è impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato, mentre il gran cancelliere Ferrer in sua assenza impone un calmiere sul prezzo del pane; il governatore nomina in seguito una giunta per decidere in merito alla questione e la revoca del calmiere stabilita da quest'ultima scatena di fatto il tumulto di S. Martino. L'assedio di Casale va per le lunghe e lo scrittore riferisce nel cap. XXVII che don Gonzalo si lamenta per il poco aiuto offerto dalla corte spagnola e per la condotta non limpida dell'alleato sabaudo, osservando con ironia che, secondo alcuni storici, le operazioni sono rallentate "per i molti spropositi che faceva". In seguito alla sommossa dell'11 novembre 1628 è costretto a rientrare precipitosamente a Milano e, in occasione di una visita ufficiale del residente di Venezia (la Repubblica era potenziale alleata dei Francesi) si lamenta del fatto che lo Stato vicino abbia offerto asilo a Renzo, fuggito in seguito ai disordini di S. Martino; la Repubblica svolge alcune indagini superficiali nel territorio di Bergamo che non danno alcun esito e quando viene riferita la risposta al governatore, tornato all'assedio di Casale, questi alza la testa "come un baco da seta che cerchi la foglia", si ricorda in modo fugace della questione sollevata a suo tempo e poi non ci pensa più (la vicenda è ovviamente invenzione del romanziere, ma serve a caratterizzare don Gonzalo come un politico superficiale e vanesio).
Viene citato occasionalmente quale autore di gride e provvedimenti per ribassare il prezzo del pane in seguito alla rivolta di novembre 1628 (cap. XXVIII), mentre viene ricordato che in seguito all'intervento delle truppe francesi è costretto a togliere l'assedio da Casale, nella primavera del 1629. L'eventualità sempre più concreta di un passaggio dei Lanzichenecchi in Lombardia per porre l'assedio a Mantova e, conseguentemente, il timore che ciò diffonda il contagio della peste, spingono il membro del Tribunale di Sanità Alessandro Tadino a rappresentare la cosa al governatore, il quale però sottovaluta il pericolo e risponde che "non sapeva che farci", poiché le ragioni per cui quell'esercito si è mosso sono di ordine superiore e, quindi, bisogna confidare nella Provvidenza divina. Poco dopo Gonzalo viene rimosso dalla carica di governatore per il cattivo esito della guerra da lui promossa e lascia Milano tra i fischi e le rimostranze del popolo, che lo accusa per la fame sofferta e gli imputa l'incuria dimostrata nel suo governo, senza contare la negligenza adoperata nel fronteggiare il rischio della peste; verrà sostituito dal genovese Ambrogio Spinola e in seguito (cap. XXXI) la voce popolare lo indicherà come il mandante degli untori durante la peste, quale vendetta "per gl'insulti ricevuti nella sua partenza".
Il personaggio viene spesso tratteggiato in maniera impietosa dall'autore, che lo rappresenta come un politico incompetente e ambizioso, interessato più alla gloria personale e alle vicende della guerra che non alla popolazione milanese affidata al suo governo, esponente di quegli uomini di Stato del tutto inadeguati al ruolo che ricoprono (esempio analogo è Antonio Ferrer, corresponsabile nella dissennata gestione della carestia del 1628).

Antonio Ferrer

È il gran cancelliere dello Stato di Milano che esercitò tale carica tra il 1619 e il 1635, sostituendo nel 1628 il governatore don Gonzalo Fernandez de Cordoba impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato: è uno dei personaggi storici del romanzo ed è in qualche modo protagonista della rivolta per il pane scatenatasi a Milano il giorno 11 novembre 1628, narrata nei capp. XI, XII e XIII del libro. Essa trae origine dall'insensata decisione presa proprio dal Ferrer di imporre un calmiere (ovvero un tetto massimo) sul prezzo del pane, che non tiene conto delle leggi di mercato e provoca un ribasso forzoso, che ha come conseguenza l'accorrere del popolo ai forni per acquistare il pane a buon mercato (XII). I fornai ovviamente protestano per l'insostenibile perdita economica e chiedono a gran voce la revoca del calmiere, ma il gran cancelliere dichiara che i bottegai si sono molto avvantaggiati in passato e torneranno ad arricchirsi quando la carestia sarà finita, quindi rifiuta di revocare il provvedimento che lo ha reso tanto popolare presso i cittadini milanesi e lascia ad altri l'incombenza di farlo (l'autore osserva con amara ironia che non sa se attribuire ciò alla testardaggine dell'uomo oppure alla sua incompetenza, giacché è impossibile ora entrare nella sua testa per capire cosa pensasse). Il risultato è che il governatore incarica una commissione di decidere in merito alla questione e la revoca del calmiere stabilita da essa scatena la rabbia del popolo e la sommossa.
Ferrer compare poi come personaggio direttamente nel cap. XIII, allorché giunge in carrozza a trarre in salvo Ludovico Melzi d'Eril, il vicario di Provvisione che la folla sta assediando nella sua casa per linciarlo in quanto presunto responsabile della penuria (in realtà, com'è ovvio, il funzionario non ha alcuna colpa). Il gran cancelliere è accolto con acclamazioni di giubilo dalla folla in tumulto, alla quale è gradito per il calmiere imposto sul pane, quindi il funzionario blandisce i rivoltosi con parole lusinghiere promettendo di condurre il vicario in prigione e di volerlo castigare, ma aggiungendo alcune parole in spagnolo ("si es culpable...", se è colpevole) per ingannare la gente che non è in grado di comprendere. Dopo che la carrozza è avanzata lentamente tra la folla assiepata di fronte alla casa del vicario (in mezzo alla quale c'è anche Renzo che si dà un gran daffare per aiutare Ferrer ad arrivare alla porta), il gran cancelliere scende e riesce non senza fatica a infilarsi nella casa, da dove poi trae il vicario che fa salire sulla carrozza e conduce via, continuando a rivolgersi alla folla e a promettere severi castighi verso il funzionario, al quale tuttavia spiega in spagnolo che dice questo solo "por ablandarlos", per rabbonirli. Quando finalmente la carrozza è lontana dal tumulto e i due sono protetti da alcuni soldati, Ferrer mostra il suo vero volto rispondendo in modo cinico al povero vicario, il quale manifesta l'intenzione di lasciare la sua carica e di ritirarsi in una "grotta", mentre il cancelliere dice che egli farà ciò che sarà più conveniente per il servizio al re spagnolo. La figura del Ferrer è delineata in maniera ironica e impietosa dall'autore, che lo rappresenta dapprima come un testardo incompetente che con i suoi provvedimenti insensati è stato causa della rivolta, poi come un attore consumato che riesce ad abbindolare la folla con un discorso ingannevole e un uso astuto del linguaggio, sia pure per ottenere il nobile fine di salvare il vicario dal linciaggio (si veda l'approfondimento del cap. XIII).
Viene citato in precedenza nel cap. III, quando l'Azzecca-garbugli mostra a Renzo la grida del 15 ottobre 1627 che prevede pene severissime a chi minaccia un curato e in calce alla quale il giovane legge la firma del gran cancelliere, "vidit Ferrer" (Renzo se ne ricorderà nel cap. XIII, quando il funzionario arriverà in carrozza e lui chiederà ai rivoltosi se è "quel Ferrer che aiuta a far le gride"). In seguito Renzo lo cita più volte come un galantuomo che aiuta la povera gente nel suo improvvisato discorso di fronte alla folla (XIV), quando attira l'attenzione del poliziotto travestito, mentre nel momento in cui il notaio criminale lo arresta (XV) chiede di essere condotto dal gran cancelliere, affermando che quello gli è debitore (il giovane allude al fatto che ha dato una mano a far stare indietro la folla, quando la carrozza di Ferrer ha raggiunto la casa del vicario di Provvisione). Si parla ancora di lui nel cap. XXVIII, quando l'autore spiega che a Milano, in seguito alla rivolta dell'11 e del 12 novembre 1628, il pane si vende nuovamente a buon prezzo e ciò in forza di provvedimenti di legge tra cui una grida datata 15 novembre a firma del gran cancelliere, in cui si minacciano pene severe a chiunque acquisti pane in misura eccedente il bisogno e ai fornai che non ne vendano al pubblico in quantità sufficiente (Manzoni osserva con la consueta ironia che, se tali gride fossero state eseguite, il ducato di Milano avrebbe avuto più galeotti della Gran Bretagna nel XIX secolo). All'inizio del cap. XXXII, infine, viene detto che il nuovo governatore di Milano, Ambrogio Spinola, risponde in modo evasivo alle insistenti richieste dei decurioni (i magistrati municipali della città) in merito alle strettezze economiche per far fronte alla peste, cosicché il Ferrer gli scrive che la sua risposta era stata letta dai decurioni "con gran desconsuelo" (con vivo dispiacere) e in seguito lo Spinola trasferisce con "lettere patenti" al gran cancelliere tutti i poteri in merito all'epidemia, dal momento che il governatore è impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato.
Legato a Ferrer è anche il personaggio del suo cocchiere, lo spagnolo Pedro, al quale il gran cancelliere (XIII) si rivolge con parole in spagnolo che sono quasi passate in proverbio ("Pedro, adelante con juicio", avanti con prudenza, in riferimento alla difficoltà di far avanzare la carrozza in mezzo alla folla).

Il Marchese Erede di Don Rodrigo

Compare nel capitolo finale del romanzo (XXXVIII) ed è l'aristocratico che eredita tutti i beni di don Rodrigo, morto di peste al lazzaretto di Milano: giunge al palazzotto del defunto signore per entrare in possesso dell'eredità e il suo arrivo è riferito da Renzo a don Abbondio, come prova dell'avvenuta morte del signorotto e indurre così il curato a celebrare finalmente il matrimonio tra lui e Lucia. Il fatto è confermato anche dal sagrestano Ambrogio e solo allora don Abbondio si rassicura e si lascia andare ad alcune considerazioni poco lusinghiere sul conto di don Rodrigo, mentre il marchese è da lui definito "un bravo signore davvero" e "un uomo della stampa antica". Il giorno dopo è lo stesso marchese a fare visita al curato e in quest'occasione il nobile è descritto come "un uomo tra la virilità e la vecchiezza" e oltre a ciò "aperto, cortese, placido, umile, dignitoso", proprio l'opposto di ciò che era stato don Rodrigo: egli porge a don Abbondio i saluti del cardinal Borromeo e chiede notizie dei due giovani un tempo perseguitati dal defunto parente, al che il curato risponde che sono scampati alla peste e in procinto di sposarsi; il marchese chiede cosa possa fare per aiutarli e riparare così in parte al male commesso da don Rodrigo (egli ha infatti perso i suoi due figli e la moglie, dunque possiede un vasto patrimonio accresciuto da tre eredità) e il curato gli propone prontamente di acquistare i terreni di Renzo e Agnese, i quali sono in predicato di lasciare il paese per trasferirsi insieme a Lucia nel Bergamasco e devono perciò trovare un compratore per le loro proprietà. Il marchese non solo accoglie il suggerimento, ma propone a sua volta a don Abbondio di fissare lui il prezzo e di andare subito a casa di Lucia per intavolare la trattativa: durante il tragitto, il sacerdote chiede al nobile di interessarsi per far revocare il mandato di cattura che pende ancora su Renzo per via dei fatti del tumulto di S. Martino a Milano, cosa che il marchese si impegna a fare anche perché il curato assicura che il giovane non ha commesso gravi reati. Giunti a casa di Lucia e Agnese, dove ci sono anche Renzo e la mercantessa, la trattativa viene presto conclusa con il marchese che pattuisce un prezzo molto alto per l'acquisto delle terre e invita a pranzo tutta la compagnia per il giorno dopo le nozze in quello che fu il palazzo di don Rodrigo, per stilare il compromesso legale. Qui il marchese riserva agli sposi una calda accoglienza e poi li mette a tavola con Agnese e la mercantessa in un tinello, mentre lui si ritira a pranzare con don Abbondio in un'altra sala, suscitando l'osservazione ironica del narratore circa il fatto che sarebbe stato assai più semplice pranzare tutti assieme: l'autore lo definisce "umile", ma non "un portento d'umiltà", aggiungendo che ne "aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari" (egli allude alla rigida divisioni in classi sociali in base alla quale era impensabile per un aristocratico sedere alla stessa tavola con borghesi e popolani, benché tale visione sociale fosse in certo modo ancora in vigore anche al tempo di Manzoni). Il personaggio rappresenta comunque l'unica eccezione fra i personaggi nobili del romanzo, in quanto non sembra condividere l'attaccamento alle concezioni di onore e cavalleria che sono all'origine di molti soprusi a danno degli umili e, soprattutto, cerca di riparare ai torti commessi da don Rodrigo, agevolando di fatto l'inizio della nuova vita degli sposi in quella che sarà la loro nuova patria.

Don Ferrante

È il nobiluomo milanese che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotto nel cap. XXV, col dire che la moglie donna Prassede lo incarica di scrivere una lettera al cardinale per informarlo della decisione di ospitare la ragazza, compito che l'aristocratico svolge con la consueta maestria (egli è descritto fin dall'inizio come un uomo dotto e letterato, infatti nella lettera egli inserisce molti "fiori", ovvero sottigliezze retoriche da cui il Borromeo dovrà ricavare "il sugo"). Il casato del personaggio non viene nominato e tale omissione è come al solito imputata alla reticenza dell'anonimo, anche se il cardinale approva la decisione di mandare Lucia nella sua casa dove, è certo, sarà al sicuro dalle insidie di don Rodrigo, benché il prelato conosca donna Prassede per essere una persona non proprio adatta all'ufficio di proteggere la ragazza, per via del suo eccessivo zelo nei confronti del prossimo. Don Ferrante viene poi descritto nel cap. XXVII come un uomo che passa per essere molto dotto, anche se attraverso di lui l'autore svolge una sottile quanto corrosiva critica della cultura del Seicento, frivola e priva di profondi significati: in casa il nobile non vuole comandare né ubbidire, quindi si sottrae alla "tirannia" esercitata dalla moglie e la compiace solo quando si tratta di scrivere per lei una lettera indirizzata a un gran personaggio, per quanto anche in questo rifiuti talvolta di darle il suo aiuto. Possiede una biblioteca che conta circa trecento volumi (un numero considerevole per l'epoca) e nella quale l'uomo trascorre molto tempo sprofondato nelle sue letture, gloriandosi di essere esperto in vari campi del sapere: l'autore passa in rassegna le opere più significative di questa raccolta in cui emerge il carattere insulso della cultura dell'epoca, dal momento che don Ferrante risulta particolarmente versato nell'astrologia, nella filosofia antica (Aristotele è ovviamente la sua autorità indiscussa, per quanto sia presente fra gli scrittori anche il contemporaneo Cardano, autore di scarsissimo peso), nella naturalistica (grande spazio hanno i descrittori di mirabilia antichi e moderni), nella magia e nella stregoneria, nella storia, nella politica (qui viene esaltato Valeriano Castiglione, scrittore del XVII sec. di nessun valore) e soprattutto nella scienza cavalleresca, dove il personaggio viene considerato una specie di autorità (è evidente la polemica del Manzoni contro la concezione distorta dell'onore e della cavalleria, fonte di tanti soprusi e ingiustizie all'epoca del romanzo).
La sua morte per la peste viene narrata alla fine del cap. XXXVII e anche questa è un'occasione per mettere in ridicolo le sue presunte conoscenze "scientifiche" e il carattere insulso della filosofia dell'epoca, all'origine di tante errate credenze riguardanti la terribile epidemia: don Ferrante infatti nega risolutamente che il contagio possa propagarsi da un corpo all'altro e si esibisce in un complesso ragionamento che si appoggia sulla logica aristotelica (rigoroso in sé, ma che ovviamente non tiene conto delle cognizioni scientifiche e mediche inerenti al caso), quindi attribuisce la peste agli influssi astrali e in particolare alla congiunzione di Giove e Saturno, origine a suo dire dell'epidemia e contro la quale è perfettamente inutile prendere precauzioni come quelle prescritte dai medici, quali il bruciare i panni degli appestati e simili. Convinto di queste considerazioni, don Ferrante non prende alcuna misura per evitare il contagio e ovviamente si ammala di peste, andando a letto "a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre le sua "famosa libreria" è forse ancora "dispersa su per i muriccioli", ovvero è stata venduta sulle bancarelle dei libri usati.
Nel Fermo e Lucia il personaggio è inizialmente presentato come don Valeriano (III, 4), ricco gentiluomo milanese sposato con donna Margherita e con un'unica figlia, Ersilia, mentre in seguito (III, 9) il nome diventa quello poi definitivo di don Ferrante e la moglie sarà ugualmente ribattezzata donna Prassede. Nella prima stesura la presentazione della famiglia nobile e la descrizione della vita di Lucia nella loro casa di Milano sono assai più prolisse e ricche di personaggi secondari (il maggiordomo Prospero, la governante Ghita incaricata di sorvegliare Lucia...), parti poi eliminate nell'edizione finale dei Promessi sposi. Altrettanto curioso il fatto che inizialmente la "dotta" disputa sulla peste sia inclusa nella digressione storica sull'epidemia (IV, 3) e inserita in un dialogo con un signor Lucio, altro nobile ignorante e saccente che strepita contro i regolamenti del Tribunale di Sanità e contro la scienza medica (l'episodio verrà poi drasticamente ridotto e posto alla fine del cap. XXXVII, a margine del racconto della morte di don Ferrante).

Bortolo Castagneri

È il cugino di Renzo che vive e lavora in un paese vicino a Bergamo (nel territorio che all'epoca faceva parte della Repubblica di Venezia) e che offre rifugio e lavoro al protagonista dopo la sua fuga da Milano in seguito al tumulto di S. Martino, quando è braccato dalla giustizia: è nominato per la prima volta nel cap. VI, quando Agnese propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e Renzo progetta a sua volta di trasferirsi con Lucia e la madre nel Bergamasco, dove appunto suo cugino Bortolo è impiegato in un filatoio di seta e dove ha spesso invitato il protagonista a raggiungerlo, poiché in quel territorio gli operai della seta sono molto richiesti. In seguito Renzo sarà costretto a rifugiarsi nel Bergamasco come fuggitivo e qui raggiungerà il cugino nel paese in cui vive (XVII), ricevendo una calorosa accoglienza nel filatoio in cui lavora e di cui l'uomo è diventato il factotum, essendo tra l'altro il braccio destro del proprietario (viene lasciato intendere che l'uomo è nato nello stesso paese del protagonista e che conosce bene Lucia e Agnese, dunque si è trasferito tempo prima nel Bergamasco senza tuttavia che sia precisato quando ciò è avvenuto). Bortolo spiega a Renzo che in questo momento non c'è richiesta di operai a causa della crisi, ma aiuterà comunque il cugino in quanto gode del favore del padrone e ha messo da parte discreti guadagni, perciò sarà lieto di condividere questo benessere con un membro della famiglia. Informa Renzo del fatto che la carestia è presente anche in quel territorio, tuttavia la politica dello Stato veneto è più oculata di quella di Milano e questo permette di alleviare le sofferenze della popolazione, sia con l'acquisto di grano a buon mercato proveniente dalla Turchia, sia con l'importazione di miglio per produrre del pane a minor prezzo. Bortolo spiega infine al cugino che i Milanesi vengono definiti dai Bergamaschi "baggiani" (sciocchi), cosa che irrita Renzo ma alla quale dovrà rassegnarsi poiché si tratta di un'usanza inveterata, cui è necessario abituarsi se si vuol vivere in quel territorio; presenta poi Renzo al suo padrone e gli procura un impiego al filatoio e un ricovero, sistemandolo alla meglio durante il primo periodo della sua "latitanza".
Tempo dopo l'uomo è informato del fatto che la giustizia della Repubblica sta facendo indagini su Renzo (XXVI), in seguito alle proteste che il governatore don Gonzalo ha rivolto al residente di Venezia a Milano, quindi si affretta a consigliargli di cambiare paese e trovare lavoro in un altro filatoio, cambiando anche nome per prudenza: lo presenta come Antonio Rivolta al padrone di un altro stabilimento a circa quindici miglia dal suo paese, raccomandando il cugino come ottimo lavoratore della seta e riuscendo a sistemarlo lì (il proprietario è suo amico e originario lui pure del Milanese). In seguito risponde alle molte domande sulla scomparsa di Renzo in modo evasivo, diffondendo voci contraddittorie sulla sua sorte che arrivano all'orecchio di Agnese e non consentono neppure al cardinal Borromeo di prendere informazioni sul giovane fuggiasco, come aveva promesso alla donna e a Lucia.
Renzo resta nel suo nuovo nascondiglio per cinque o sei mesi, al termine dei quali Bortolo si affretta a richiamarlo al suo paese in quanto Venezia e la Spagna sono ora nemiche nella guerra di Mantova e non c'è più pericolo (XXXIII): l'autore spiega la sollecitudine di Bortolo perché questi è sinceramente affezionato al cugino, ma soprattutto perché al filatoio Renzo era di grande aiuto al factotum senza potere aspirare a occupare quella funzione in quanto semi-analfabeta (apprendiamo che l'aiuto offerto a Renzo non è del tutto disinteressato e l'autore osserva con ironia che forse i lettori vorrebbero "un Bortolo più ideale", ma quello "era così"). Dopo aver appreso per lettera del voto di Lucia, Renzo coltiva più volte il proposito di arruolarsi e partecipare alla guerra contro il Ducato di Milano, specie nell'eventualità che sembra imminente di un'invasione di questo da parte di Venezia, ma Bortolo riesce a dissuaderlo illustrandogli i pericoli dell'impresa e mostrandosi scettico sulla sua riuscita (si intuisce che, anche in questo caso, i consigli dell'uomo non sono del tutto spassionati). Per gli stessi motivi dissuade Renzo dal proposito di tornare al suo paese sotto mentite spoglie, finché scoppia l'epidemia di peste del 1630 e il giovane si ammala, riuscendo però a guarire e decidendo di approfittare del flagello per tornare nel Milanese: informa della sua risoluzione Bortolo, che è ancora sano e perciò gli parla da una finestra, augurandogli buon viaggio ed esortandolo a tornare da lui alla fine della pestilenza (Renzo promette di farlo e spera di non tornare da solo).
Alla fine delle vicende del romanzo Renzo va a stabilirsi con le due donne nel paese di Bortolo (XXXVIII) e questi, venuto a sapere che il padrone di un filatoio alle porte di Bergamo è morto di peste e il figlio intende vendere la fabbrica, propone al cugino di entrare in società per rilevarlo: Renzo accetta e così i due acquistano lo stabilimento, iniziando una lucrosa attività che, dopo gli stentati inizi, diventa quanto mai florida.

Il Capitano di Giustizia

Compare nel cap. XII, durante la sommossa a Milano del giorno di S. Martino, e viene presentato in occasione dell'assalto al forno delle Grucce: è l'ufficiale incaricato di mantenere l'ordine pubblico in città, dunque viene mandato a chiamare quando la folla dei rivoltosi si avvicina minacciosamente alla bottega. Si presenta alla testa di una squadra di alabardieri e tenta inutilmente di blandire la folla con parole diplomatiche, promettendo clemenza a chi se ne tornerà a casa; in seguito entra nel forno e si affaccia a una finestra, tornando a rivolgersi ai rivoltosi con parole lusinghiere, finché una pietra non lo colpisce alla testa e lo induce a cambiare improvvisamente tono (l'uomo prorompe nell'esclamazione "Ah canaglia!", mentre poco prima diceva che i milanesi sono famosi nel mondo per la loro bontà). Quando la folla irrompe all'interno del forno si nasconde in un angolo, lasciando di fatto che la bottega sia messa a soqquadro dai rivoltosi. In seguito è nominato nel cap. XV, quando l'oste della Luna Piena va a rendere la sua deposizione al palazzo di giustizia e viene spiegato che il poliziotto travestito che ha raggirato Renzo era proprio un "bargello" sguinzagliato dal capitano per arrestare qualcuno dei rivoltosi e dare un pronto esempio ai sediziosi. È una delle figure più amaramente comiche del romanzo, rappresentando l'impotenza dell'amministrazione giudiziaria di fronte ai moti popolari.

Il Vicario delle Monache

Compare nel cap. X ed è il sacerdote incaricato di esaminare Gertrude prima del suo ingresso nel monastero di Monza come novizia, col compito di accertare la sincerità della sua vocazione ed escludere che abbia subìto delle pressioni: è presentato come un "grave e dabben prete", anche se giunge al palazzo del principe padre della ragazza con una certa convinzione dell'effettiva volontà di quest'ultima circa il prendere il velo, dunque mostrando almeno in parte una certa ingenuità. L'uomo chiede subito a Gertrude se le siano state rivolte "minacce, o lusinghe" per indurla a farsi monaca, cosa alla quale la ragazza risponde prontamente dicendo che la sua decisione è libera, quindi il prete le domanda da quando abbia avuto questo pensiero e Gertrude ribatte che l'ha "sempre avuto". Quando la giovane dichiara che il motivo che la spinge è il desiderio "di servire Dio, e di fuggire i pericoli del mondo", il vicario insinua senza troppa convinzione che all'orgine potrebbe esserci qualche "disgusto", ma Gertrude è abile a dissimulare il vero motivo (le minacce e le costrizioni del padre) e dunque l'esaminatore si stanca di interrogarla prima che lei si stanchi di mentirgli. L'uomo si complimenta con la ragazza e poi lascia la sala, imbattendosi successivamente nel principe che sembra passare di lì per caso (ed è in realtà in ansiosa attesa dell'esito del colloquio), al quale comunica il felice risultato dell'esame cui ha sottoposto la figlia.

Il padre provinciale dei cappuccini

Compare nel cap. XIX ed è il cappuccino più alto in grado nel territorio dov'è situato il convento di Pescarenico, al quale si rivolge il conte zio su suggerimento del conte Attilio al fine di far allontanare padre Cristoforo dal convento ed eliminare, così, un ostacolo alle mire di don Rodrigo su Lucia. Il prelato è invitato a pranzo dall'uomo politico e siede a una superba tavolata insieme a commensali di alto rango, parenti titolati del conte e servili clienti: in un successivo colloquio a due, il conte zio insinua calunniosi sospetti sulla condotta di fra Cristoforo, alludendo alla sua protezione nei riguardi di Renzo (ricercato dalla giustizia per il tumulto di S. Martino), al suo passato turbolento, allo scontro con don Rodrigo per un'imprecisata questione. Il conte zio lascia intendere che la cosa dovrebbe essere stroncata sul nascere, onde evitare spiacevoli conseguenze che potrebbero coinvolgere altri nobili imparentati con la potente casata, così il padre, nonostante una debole e sempre meno convinta difesa d'ufficio di fra Cristoforo, è costretto ad accogliere la richiesta di allontanarlo dal suo convento. Decide di inviarlo perciò a Rimini, dove gli è richiesto un predicatore per la Quaresima, il che suscita la viva approvazione del conte zio, che sollecita d'altra parte l'urgenza del provvedimento. L'uomo politico si complimenta poi col prelato per la brillante soluzione a una faccenda che poteva diventare rischiosa, cedendogli rispettosamente il passo prima di uscire dalla stanza e riunirsi agli altri invitati. L'autore accenna alla sua morte nel corso del cap. XXXI, dedicato al diffondersi della peste a Milano, col dire che il commissario che ne fa le veci decide di affidare la direzione del lazzaretto a padre Felice Casati (il romanziere non precisa se il padre provinciale sia morto di peste o meno).

Il padre guardiano del convento di Monza

Compare nel cap. IX ed è il cappuccino del convento di Monza a cui padre Cristoforo ha indirizzato Agnese e Lucia, scrivendo loro una lettera di presentazione per il frate: questi la legge con attenzione, mostrando una certa riprovazione per quanto vi viene descritto, quindi conclude che solo la "Signora" (Gertrude, la monaca del convento della città) può offrire protezione alle due donne. Si dice disposto ad accompagnarle al chiostro, raccomandando tuttavia di seguirlo a una certa distanza per evitare che la gente chiacchieri vedendolo in compagnia di una "bella giovine", anche se poi si corregge dicendo "con donne". Presenta Agnese e Lucia a Gertrude e fornisce scarni particolari sulla persecuzione di don Rodrigo, anche se poi la monaca chiede ulteriori dettagli. È molto contento del fatto che la "Signora" accetti di ricoverare Lucia nel monastero e si affretta a informare padre Cristoforo con una lettera, dicendo tra sé che "anche noi qui, siam buoni a qualche cosa", soddisfatto di esser riuscito a trovare per le due donne un rifugio che egli reputa del tutto sicuro.

Padre Felice Casati

È il frate cappuccino a cui viene affidato il governo del lazzaretto durante la peste del 1630, assieme a padre Michele Pozzobonelli che gli fa da aiutante: personaggio storico (1583-1656), milanese, padre Felice Casati fu per due volte provinciale dell’Ordine e dopo essere scampato all'epidemia (si ammalò di peste e ne guarì) fu inviato nel 1644 a Madrid per ottenere dal re Filippo IV un alleggerimento delle tasse, dal momento che il paese era stremato dalla guerra e dai flagelli. Ciò gli valse molte inimicizie, tanto che fu mandato in Corsica per due anni malgrado le proteste dei suoi concittadini; nel 1656 fu eletto Custode generale e partì a piedi per Roma per partecipare a un'importante riunione, ma giunto a Livorno si ammalò e morì misteriosamente, fatto in cui alcuni vollero vedere la longa manus del governo spagnolo. Fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di quella città.
L'autore lo introduce nel cap. XXXI del romanzo, col dire appunto che a lui il Tribunale di Sanità affida la direzione del lazzaretto cui diventa sempre più arduo provvedere nel dilagare dell'epidemia, incarico che il cappuccino svolge con incredibile solerzia grazie anche all'aiuto di molti confratelli (Manzoni sottolinea i meriti straordinari degli ecclesiastici nel prendersi cura degli ammalati e dei bisognosi durante l'epidemia, spesso supplendo alle mancanze e all'incapacità del potere pubblico). Compare poi come personaggio autonomo nel corso del cap. XXXVI, quando guida la processione dei guariti destinati alla quarantena fuori del lazzaretto, fra i quali Renzo (che si è introdotto lì fortunosamente e vi ha incontrato padre Cristoforo) spera invano di trovare la sua Lucia: il frate rivolge un breve ma sentito discorso ai guariti, che viene attentamente ascoltato da Renzo e che è un raro esempio di oratoria appassionata e piena di sentimento religioso, nel quale invita i guariti a non gioire rumorosamente della loro fortuna e a provare compassione per quelli che restano in quel luogo di sofferenza, ringraziando Dio per la misericordia che è loro toccata. Il "mirabil frate" si avvolge poi una corda intorno al collo, in segno di umiltà, e dopo essersi inginocchiato chiede perdono agli ammalati se talvolta non è stato sollecito nel rispondere alle loro chiamate e a curarli con la necessaria solerzia, parole che suscitano la viva commozione di tutti i presenti, incluso Renzo. Il cappuccino poi si alza, solleva una gran croce e si toglie i sandali, precedendo scalzo il corteo dei guariti che conduce fuori dal lazzaretto, sotto gli occhi attenti di Renzo che non scorge Lucia tra quel gruppo di persone fortunate (egli troverà la ragazza poco dopo dentro una capanna, insieme alla mercantessa).
Attraverso la figura di padre Felice l'autore tratteggia un imponente ritratto di religioso totalmente dedito al prossimo e pronto al sacrificio assoluto di sé, molto simile allo stesso padre Cristoforo e in generale a tutti i cappuccini, fra i quali spiccano l'amore per il prossimo, l'abitudine all'obbedienza, la volontà di servire i poveri (non a caso lo stesso Cristoforo chiede di essere mandato a Milano per occuparsi degli appestati, morendo poi nel lazzaretto come si apprenderà nel cap. XXXVII).

La Madre Badessa

Compare nei capp. IX-X ed è la madre superiora del convento di Monza in cui Gertrude è monaca, lo stesso nella quale la giovane era stata collocata dal padre come educanda: essa ha un ruolo attivo nella "cospirazione" ordita dal principe per indurre la figlia a farsi monaca, per cui la ragazza gode nel monastero di ampi privilegi rispetto alle altre educande e viene indotta a sottoscrivere la supplica al vicario per essere sottoposta all'esame (per il chiostro avere Gertrude come monaca sarebbe un indubbio vantaggio "politico"). Manifesta tutta la sua disapprovazione a Gertrude quando lei scrive una lettera al padre in cui esprime riserve sulla sua monacazione (IX) e in seguito, quando la giovane ha dato il suo consenso, riceve la pubblica visita di lei e della sua famiglia al convento (X), in occasione della quale rammenta con deferenza e qualche timore al principe che l'uomo incorrerebbe nella scomunica se mai forzasse la figlia a quel passo (si tratta di una semplice formalità, dal momento che la badessa conosce perfettamente i disegni del nobile). In seguito fa in modo che il capitolo voti a favore dell'accettazione di Gertrude come novizia e non viene più nominata nel romanzo, salvo quando la "Signora" la dileggia agli occhi delle educande di cui è maestra.

Fra Galdino

È un cercatore laico dei cappuccini, che vive al convento di Pescarenico dove risiede anche il padre Cristoforo: uomo semplice e dotato di fede candida e ingenua, è un personaggio secondario che compare in due importanti episodi del romanzo, in entrambi i quali protagonista è Agnese. Nel primo (cap. III) il frate bussa alla porta della casa di Agnese e Lucia, chiedendo l'elemosina delle noci, al che la donna ordina alla figlia di portarle a Galdino: nell'attesa l'uomo racconta il "miracolo delle noci", intermezzo narrativo e apologo edificante sul valore della carità che contiene involontari riferimenti al personaggio di don Rodrigo. Al suo ritorno Lucia consegna al frate una quantità ingente di noci (attirando la collera di Agnese in quanto l'annata è scarsa), per poi chiedere a Galdino di pregare il padre Cristoforo di venire da loro prima possibile. In seguito la giovane spiega alla madre che, se il cercatore avesse dovuto proseguire la questua anziché tornare subito in convento, avrebbe perso tempo e si sarebbe probabilmente dimenticato di avvertire Cristoforo, per cui Agnese approva (seppur a malincuore) la sua scelta. Nel secondo episodio (XVIII), Agnese si reca al convento di Pescarenico per conferire col padre Cristoforo dopo aver appreso a Monza che Renzo è rimasto coinvolto nei tumulti di Milano ed è fuggito a Bergamo, ma alla porta trova fra Galdino che la informa che Cristoforo è partito per Rimini, su ordine del padre provinciale dei cappuccini: la donna è costernata e Galdino, con la sua schietta semplicità, si compiace del fatto che il padre sia stato inviato come predicatore in una città lontana, poiché i frati cappuccini sono famosi in tutto il mondo per le loro abilità oratorie. Le propone di rivolgersi ad altri padri del convento per un parere, nessuno dei quali naturalmente può soddisfare Agnese che ha fiducia solo in Cristoforo, per cui la donna è costretta a tornarsene sconsolata al paese. Curioso è il fatto che fra Galdino citi la Romagna in entrambi gli episodi in cui compare: lì sorgeva il convento di padre Macario, protagonista del "miracolo delle noci", e sempre in quella regione (cioè a Rimini) viene trasferito padre Cristoforo su ordine del padre provinciale.
Altra curiosità sta nel fatto che nel Fermo e Lucia il personaggio veniva chiamato fra Canziano (III, 3), mentre il nome di padre Galdino era inizialmente attribuito al personaggio di padre Cristoforo.

Fra Fazio

Compare nel cap. VIII ed è il laico sagrestano del convento dei cappuccini di Pescarenico: al momento in cui Renzo, Agnese e Lucia giungono al monastero dove li attende padre Cristoforo oppone delle resistenze a far entrare nel convento delle donne, per giunta di notte, ma il padre tronca ogni discussione dicendo "Omnia munda mundis" (tutto è puro per chi è puro), frase che Fazio non intende in quanto non capisce il latino. Fra Cristoforo osserva tra sé che "se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...", alludendo alla diffusa pratica di dare asilo nei conventi ai ricercati dalla giustizia.

La Conversa

Compare nel cap. X ed è una delle laiche che vivono nel convento di Monza in cui Gertrude è monaca: viene a sapere della relazione clandestina tra la "Signora" ed Egidio, per cui un giorno, dopo che Gertrude l'ha trattata con molta durezza in seguito a una discussione, si lascia sfuggire che è a conoscenza del suo segreto e che è decisa a rivelarlo. In seguito la donna scompare e tutti credono che sia fuggita, specie dopo che si trova una breccia nel muro dell'orto (viene cercata a Meda, donde è originaria, e in altri luoghi, senza che se abbia più traccia); alla fine si pensa che si sia rifugiata in Olanda, mentre essa è stata uccisa da Edigio con la complicità della monaca (l'autore osserva che, anziché cercare lontano, si sarebbe dovuto scavare vicino, dunque è probabile che sia stata sepolta all'interno dello stesso monastero).