tag:blogger.com,1999:blog-50531626793710100252024-03-08T04:24:44.111-08:00"I Promessi Sposi" di A. ManzoniSylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.comBlogger156125tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-16862228616561242782018-06-30T00:09:00.002-07:002018-06-30T00:09:46.586-07:00Gervaso<span style="font-size: large;">È il fratello di Tonio, l'amico cui Renzo
si rivolge perché lo aiuti nel "matrimonio a sorpresa": è un po' tardo
di mente e vive col fratello nella stessa casa, in cui giunge Renzo (cap. VI) per invitare Tonio all'osteria. Viene proposto come secondo testimone di nozze dallo stesso Tonio e la sera seguente (VII) cena con quest'ultimo e Renzo all'osteria del paese, dove i tre sono sorvegliati dai bravi di don Rodrigo
e dove lui a un certo punto parla a sproposito a voce alta, venendo
subito redarguito dal fratello. Si reca poi insieme agli altri alla casa
di don Abbondio, dove prende parte alla messinscena (VIII):
dopo che lo stratagemma è fallito e che la stanza è diventata buia per
la caduta del lume, grida e saltella come uno "spiritato" cercando
l'uscita, poi se ne va velocemente insieme a Tonio. Nei giorni seguenti è
minacciato dal fratello affinché non dica nulla dell'accaduto, ma
l'uomo è così eccitato all'idea di potersi vantare di aver preso parte a
quell'impresa che non può trattenersi dal rivelare qualche cosa (XI). Non viene detto dall'autore cosa ne sia di lui durante la peste, né viene più nominato (tranne nel cap. XXXIII, quando Renzo, tornato in paese dal Bergamasco, scambia un inebetito Tonio col fratello).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-19126216841142714052018-06-30T00:03:00.002-07:002018-06-30T00:03:41.800-07:00Il Conte Zio<span style="font-size: large;">È lo zio di don Rodrigo e Attilio,
membro del Consiglio Segreto del governo milanese e influente uomo
politico: viene descritto come personaggio tronfio e vanaglorioso, abile
nell'arte sottile di simulare e dissimulare e capace all'occorrenza di
minacciare e lunsingare pur di ottenere i suoi scopi (rappresenta il
potere politico esecrato dall'autore, in quanto fondato su menzogna e
finzione come nel caso del gran cancelliere Ferrer, col quale il conte zio ha più di un'attinenza). È nominato per la prima volta nel cap. XI, quando il conte Attilio manifesta il proposito di rivolgersi a lui per indurlo a fare allontanare padre Cristoforo dal suo convento e impedirgli così di intralciare i piani di don Rodrigo; compare direttamente nel cap. XVIII, allorché il nipote Attilio si reca da lui a Milano
per parlargli del frate e ottenere il suo aiuto nella faccenda. Attilio
è assai abile a solleticare lo zio nella sua vanità di uomo politico,
ricordandogli più volte il peso degli affari di Stato (l'altro sbuffa
con gesto plateale, per sottolineare le incombenze cui deve far fronte),
quindi gli fornisce una versione addomesticata del contrasto fra
Rodrigo e padre Cristoforo, insinuando la volgare calunnia che il frate
sia invaghito di Lucia e volesse farla sposare con Renzo,
sua creatura e cattivo soggetto in quanto ricercato dalla legge, mentre
Rodrigo si sarebbe messo di traverso a causa di un'innocente passione
per la ragazza. Il conte zio crede ad Attilio e si mostra assai irritato
del fatto che il frate "temerario" si sia messo contro suo nipote,
dunque accetta di intervenire per proteggere l'onore del casato, di cui
Attilio affetta di preoccuparsi (egli è abile a far credere allo zio che
Rodrigo voglia vendicarsi del frate, argomento decisivo nell'indurre
l'uomo a prendere a cuore la questione). Reagisce con una certa stizza
quanto Attilio gli consiglia di fare pressioni sul padre provinciale
dei cappuccini, anche se è chiaro che seguirà il suggerimento, quindi
congeda il nipote con la consueta formula "e abbiamo giudizio".<br /><span>Nel cap. XIX il conte zio invita a pranzo il </span>padre
provinciale e lo fa sedere a una tavola insieme a commensali molto
altolocati, parlando poi appositamente dello splendore della corte di
Madrid dove lui è di casa. In seguito si apparta col prelato in un'altra
stanza e inizia a parlargli di padre Cristoforo, accusandolo di essere
un frate inquieto, di proteggere il famoso ricercato Lorenzo Tramaglino,
di avere un passato turbolento e sospetto; parla dei contrasti sorti
tra lui e il nipote don Rodrigo, arrivando a insinuare che il frate
abbia dei comportamenti non adatti al suo abito e suggerendo di
allontanarlo da Pescarenico
per evitare problemi, onde evitare conseguenze che potrebbero
coinvolgere conoscenze altolocate della famiglia. Il padre provinciale
obietta che ciò sembrerebbe una punizione, ma il conte zio ribatte che
la cosa sanerà la situazione prima che possa degenerare, convincendo
infine il prelato il quale, osserva, potrebbe mandare Cristoforo a
Rimini, dove è appunto richiesto un predicatore. Il conte zio promette
che la cosa resterà fra di loro e Rodrigo non ne saprà nulla, quindi non
solo non se ne potrà vantare come di una vittoria personale, ma sarà
pronto a compiere un gesto di palese amicizia verso l'ordine dei
cappuccini, verso cui ha peraltro molto rispetto. Alla fine del
colloquio i due uomini si riuniscono agli altri ospiti, non prima però
che il nobile ceda cavallerescamente il passo al padre cappuccino.<br /><span>La sua morte durante l'epidemia di peste viene ricordata nel cap. XXXV,</span> come una delle condizioni che hanno permesso a padre Cristoforo di andare da Rimini al lazzaretto di Milano per accudire gli ammalati.</span><br />Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-48538772543531371222018-06-30T00:02:00.000-07:002018-06-30T00:02:02.066-07:00Vicario di Provvisione<span style="font-size: large;">È il funzionario di Milano
incaricato di provvedere al vettovagliamento della città, da
identificare col personaggio storico di Ludovico Melzi d'Eril che
ricoprì tale carica al tempo della sommossa scoppiata il giorno di S. Martino del 1628 per il rincaro del pane: compare nel cap. XIII, quando la folla in tumulto dà l'assalto alla sua casa per linciarlo in quanto lo ritiene responsabile della carestia
e della penuria (ovviamente l'uomo non ha colpa di nulla, poiché la
mancanza di pane è da attribuire al raccolto scarso e agli sperperi
causati dalla guerra
di Mantova e del Monferrato). Si tratta di un episodio storico, che
Manzoni ricostruisce senza peraltro citare il nome del personaggio e
descrivendo il suo salvataggio ad opera del gran cancelliere del ducato
milanese, Antonio Ferrer:
quest'ultimo, che è stato all'origine del tumulto con la decisione di
imporre un calmiere sul prezzo del pane che è stato in seguito revocato,
viene accolto bene dalla folla di cui è un beniamino e riesce poi a
trarre in salvo in vicario, facendolo salire sulla sua carrozza e
promettendo falsamente al popolo di condurlo in prigione (Ferrer mescola
abilmente italiano e spagnolo, per confondere le idee ai rivoltosi).
Quando i due sono lontano dalla folla e al sicuro, il vicario manifesta
l'intenzione di dimettersi dalla carica e di rifugiarsi in una grotta o
sulla cima di una montagna, lontano da quella "gente bestiale" che
voleva assassinarlo, ma il cancelliere gli risponde che lui dovrà
rimettersi alla volontà del re spagnolo, mostrando il suo vero volto di
alto funzionario di Stato. L'episodio narrato nel cap. XIII è forse
ispirato a un fatto analogo avvenuto a Milano nel 1814, quando la folla
assaltò il palazzo del ministro delle Finanze nel governo vicereale
francese, Giuseppe Prina, che a differenza di Ludovico Melzi venne
ucciso (l'esperienza personale che Manzoni ebbe dei moti popolari nella
sua gioventù influenzò il suo giudizio negativo verso simili
manifestazioni, che emerge con chiarezza nei capp. XII-XIII del romanzo).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-35423127209024069962018-06-30T00:01:00.000-07:002018-06-30T00:01:07.609-07:00Ambrogio Spinola<span style="font-size: large;">È il il nobile genovese che nel 1629 sostituisce don Gonzalo Fernandez de Cordoba nella carica di governatore di Milano, dopo la sua rimozione in seguito al cattivo esito della guerra
e dell'assedio di Casale del Monferrato: personaggio storico, lo
Spinola (1569-1630) fu condottiero al servizio dell'arciduca Alberto,
governatore dei Paesi Bassi dominati dalla Spagna, e prese parte alla
guerra di Fiandra ottenendo la resa di Ostende (1604), anche se in
seguito la Spagna preferì giungere a un accordo con le Province Unite.
Divenuto governatore di Milano, gli fu ordinato di prendere Casale ai
Francesi ma fallì nell'impresa, ritirandosi in seguito nel suo feudo di
Castelnuovo Scrivia dove morì. L'autore lo introduce nel cap. XXVIII del romanzo, dando notizia del suo avvicendamento al governo milanese al posto di don Gonzalo, quindi lo nomina nuovamente nel cap. XXXI dedicato alla peste
del 1629-30, allorché Alessandro Tadino e un altro commissario del
Tribunale di Sanità lo pregano di assumere provvedimenti urgenti per
stringere un cordone sanitario intorno alla città: lo Spinola risponde
che la situazione lo affligge, ma le preoccupazioni della guerra sono
più pressanti e in sostanza non prende alcuna decisione. Pochi giorni
dopo, il 18 nov. 1629, ordina con una grida che si tengano pubblici
festeggiamenti per la nascita del primogenito di re Filippo IV,
incurante del fatto che un gran concorso di folla nelle strade di Milano
non potrà che accrescere il pericolo del contagio, che infatti si
diffonderà ampiamente nei mesi seguenti. All'inizio del cap. XXXII
viene ricordato che il 4 maggio 1630, quando ormai la peste sta
infuriando nella città di Milano e diventa sempre più difficile far
fronte alle necessità pubbliche coi pochi denari a disposizione, due
decurioni (i magistrati cittadini che si occupavano del governo
municipale) si recano al campo di Casale per pregare il governatore di
sospendere il pagamento delle imposte e le spese per l'alloggiamento dei
soldati, nonché di concedere alla città i fondi necessari per
fronteggiare al meglio la calamità. La risposta scritta dello Spinola è
desolante, in quanto egli manifesta il suo dispiacere per la situazione
ma non prende alcun concreto provvedimento, apponendo in calce "un
girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue
promesse". Il gran cancelliere Antonio Ferrer
manifesta al governatore il suo disappunto in altre lettere, finché il
governatore lo investe della responsabilità di far fronte alla peste,
poiché lui è impegnato nelle operazioni belliche.<br /><span></span>L'autore
condanna con impietosa ironia la sua figura, simile a quella di don
Gonzalo per la volontà caparbia di fare la guerra e la sordità ai
problemi della popolazione a lui sottomessa, mentre viene criticata
anche la storiografia ufficiale che ne ha esaltato la condotta militare e
ne ha invece sottaciuto le gravi colpe nel sottovalutare il pericolo
della peste e nel non assumere i necessari provvedimenti per arginare il
contagio. Manzoni ricorda non senza un certo sarcasmo che lo Spinola
morì pochi mesi dopo nel corso della guerra, non sul campo di battaglia
ma nel proprio letto, struggendosi per i rimproveri che gli venivano
mossi e che lui riteneva ingiusti (il personaggio è parte della critica
al mondo del potere che attraversa l'intero romanzo, benché non abbia un vero ruolo narrativo nelle vicende dei <span style="font-style: italic;">Promessi sposi</span>).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-56348300544679370272018-06-29T23:59:00.001-07:002018-06-29T23:59:06.874-07:00Il Principe Padre di Gertrude<span style="font-size: large;">È il gentiluomo milanese padre di Gertrude, la "Signora" che offre rifugio ad Agnese e Lucia nel monastero di Monza
dove la monaca gode di ampi privilegi: la sua figura è ispirata a
quella di don Martino de Leyva, conte di Monza e padre di Marianna che
costrinse a diventare monaca col nome di suor Virginia Maria nel 1591,
anche se il personaggio è tratteggiato dall'autore con ampia libertà
romanzesca e il suo nome non viene mai fatto. Compare nei capp. IX-X durante il <em>flashback </em>che
narra il passato di Gertrude e nel quale il principe ha un ruolo da
protagonista: decide che tutti i figli cadetti devono entrare in
chiostro per non intaccare il patrimonio di famiglia, destinato
interamente al primogenito, dunque il destino di Gertrude è segnato
prima ancora che lei venga al mondo. Quando la figlia nasce le viene
imposto un nome che richiami immediatamente l'idea del convento (forse
l'autore pensa a santa Gertrude, figlia del beato Pipino) e per volere
del padre essa viene educata nell'idea sottintesa che dovrà farsi
monaca, benché questo non le sia mai detto in modo esplicito. A sei anni
colloca la bambina come educanda nello stesso convento di Monza dove
poi entrerà come suora e dove può contare sull'aiuto interessato della badessa
e di altre monache notabili, che infatti riservano a Gertude un
trattamento di favore e la inducono a sottoscrivere la supplica al vicario delle monache
per essere sottoposta all'esame necessario per indossare il velo. In
seguito la giovane torna a casa per trascorrervi un mese prima di
affrontare l'esame e il principe usa una vera "tortura psicologica" per
indurla ad acconsentire al suo volere, senza mai entrare in argomento ma
facendo in modo che Gertrude viva in una condizione di quasi
isolamento, senza ricevere l'affetto e il calore dei familiari che lei
desidera più di ogni altra cosa. Quando la ragazza scrive il biglietto
d'amore per il paggio, il principe coglie al volo l'occasione per
forzarla al passo che gli sta a cuore, dapprima rimproverandola
aspramente e minacciando oscuri castighi, poi facendole capire che il
solo modo per ottenere il suo perdono è rinunciare alla vita nel mondo
per la quale, col suo incauto comportamento, si è dimostrata indegna
(egli fa leva sulla debolezza di carattere della figlia e anche sul
concetto di onore e decoro nobiliare che informa ogni suo atto).
Gertrude è indotta a dare il suo consenso e da quel momento il principe
la spinge sulla strada della monacazione rendendole di fatto impossibile
tornare indietro, dapprima accompagnandola in una uscita pubblica al
convento di Monza dove la giovane chiede alla badessa di esservi ammessa
come novizia, poi assicurandosi che Gertrude superi senza incertezza
l'esame col vicario (l'uomo le fa intendere che, in caso contrario,
renderebbe pubblico il "fallo" commesso con il paggio). Alla fine
convince la figlia ad accettare di farsi monaca promettendole una vita
di privilegi nel convento, dove sarà la prima dopo la badessa e
assicurandole che sarà sollevata a quella dignità non appena avrà
raggiunto l'età prescritta dal diritto canonico.<br /><span>Il personaggio
è una delle figure più odiose e negative del romanzo, dal momento che
decide di sacrificare la felicità della figlia in nome del concetto di
decoro aristocratico (cosa assurda secondo l'autore, dal momento che il
suo patrimonio è talmente ampio da poter essere diviso tra tutti i
figli) </span>e non esita, pur di raggiungere il suo intento, a
sottoporre Gertrude a delle autentiche crudeltà psicologiche, in cui
alcuni critici hanno intravisto un riferimento all'educazione gesuitica.
Il principe è protagonista di uno degli episodi del romanzo in cui
Manzoni usa una tecnica narrativa attenta ai risvolti psicologici e
attraverso di lui svolge una sottile critica al comportamento degli aristocratici, poiché il principe è in parte responsabile dei crimini successivamente compiuti da Gertrude insieme al suo amante Egidio.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-83566523041653158532018-06-29T23:51:00.002-07:002018-06-29T23:51:20.743-07:00Donna Prassede<span style="font-size: large;">È la nobildonna milanese moglie di don Ferrante che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotta nel cap. XXV, quando ci viene detto che lei e il marito soggiornano in un paesetto vicino a quello dove Lucia e la madre Agnese sono ospiti in casa del sarto,
proprio nei giorni successivi alla liberazione della ragazza. Il casato
cui appartiene la nobildonna non viene citato (col consueto espediente
della reticenza dell'anonimo) e l'autore la presenta come una persona
estremamente bigotta, convinta di dover fare del bene al prossimo ma per
puntiglio personale e senza una vera inclinazione caritatevole, per cui
molto spesso si intestardisce a voler intervenire in faccende che non
la riguardano, usa mezzi che non sono opportuni o leciti e talvolta
impone le sue decisioni a persone che non lo richiedono e che ne
farebbero volentieri a meno (la sua figura risulta a tratti decisamente
grottesca). Il caso di Lucia ha destato molto interesse nei dintorni e
donna Prassede esprime il desiderio di conoscere la giovane, per cui un
giorno manda una carrozza a casa del sarto per condurla alla propria
casa di villeggiatura: Lucia vorrebbe schermirsi, ma il sarto convince
lei e la madre ad accettare l'invito e così le due donne fanno la
conoscenza della nobildonna, che propone a Lucia di venire ad abitare
nella sua casa di Milano dove potrà aiutare la servitù nelle faccende domestiche e sarà al sicuro dalle mire di don Rodrigo,
assecondando così i desideri del cardinale che sta cercando un rifugio
per la ragazza. Lucia e Agnese decidono a malincuore di accettare e così
Lucia si separa dalla madre per trasferirsi a Milano (cap. XXVI), dove resterà sino allo scoppio della peste del 1630 (Renzo andrà a cercarla proprio nella casa della nobildonna, venendo a sapere che la giovane si è ammalata ed è stata condotta al lazzaretto). <br /><span>La
permanenza di Lucia nella casa aristocratica non è tuttavia delle più
felici, poiché sin dal loro primo incontro donna Prassede si è convinta
che la ragazza si sia incamminata su una brutta stra</span>da, dal
momento che si è promessa al famigerato Renzo Tramaglino e dunque a un
giovane ricercato dalla legge: la nobile non perde dunque occasione per
cercare di far dimenticare alla ragazza quel partito così sconveniente (cap. XXVII),
ottenendo il risultato paradossale di suscitare ancor più in lei il
ricordo e la nostalgia del suo promesso lontano a dispetto del voto
pronunciato in precedenza (per fortuna, osserva con amara ironia
l'autore, la nobildonna deve fare del "bene" anche ad altre persone,
quindi talvolta cessa di tormentare Lucia). L'autore ci informa che
donna Prassede ha cinque figlie, di cui tre sono monache e due sposate,
per cui la nobile si sente in dovere di dettar legge e intromettersi
nelle faccende di tre monasteri e due famiglie, anche se qui ovviamente
trova la ferma opposizione delle rispettive badesse, nonché dei generi e
dei loro parenti. La sua autorità si estende illimitata nella propria
casa (specie sulla servitù, formata da "cervelli" bisognosi "d'esser
raddrizzati e guidati"), anche se qui donna Prassede deve scendere a
patti col marito don Ferrante, il quale compiace talvolta la moglie
quando si tratta di scrivere a suo nome una lettera indirizzata a un
personaggio d'importanza, ma per il resto non vuole comandare né
ubbidire ed è spesso tacciato da lei di essere uno "schivafatiche" e un
"letterato", titolo in cui la donna mescola un atteggiamento stizzito e
un po' d'orgoglio per la fama del marito. <span>La sua morte per la peste </span>ci viene riferita alla fine del cap. XXXVII,
con l'osservazione amaramente ironica che "quando si dice ch'era morta,
è detto tutto" (l'autore congeda in modo sbrigativo il suo personaggio,
intento a fare il bene per capriccio personale e non certo per carità
cristiana, quindi la sua scomparsa avviene senza quasi che nessuno provi
pena per lei).<br /><span>Nel </span><em>Fermo e Lucia</em>
(III, 4) il personaggio viene dapprima presentato col nome di donna
Margherita, per poi diventare in seguito donna Prassede (III, 9) mentre
Margherita (Ghita) sarà la governante della casa di Milano.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-18802883776025421052018-06-29T23:40:00.002-07:002018-06-29T23:40:27.402-07:00Don Gonzalo Fernandez de Cordoba<span style="font-size: large;">È il governatore dello Stato di Milano,
carica che esercitò dal 1626 al 1629 durante il dominio spagnolo in
Lombardia: personaggio storico (ca. 1590-1635), fu condottiero delle
forze spagnole e si distinse in Fiandra e nel Palatinato, riportando la
vittoria di Fleurus; combatté al fianco di Carlo Emanuele I di Savoia
nella guerra di Mantova,
cingendo d'assedio Casale per poi ritirarsi nel marzo 1629, in seguito
all'intervento delle truppe francesi. Fu successivamente rimosso dalla
carica di governatore e divenne ambasciatore a Parigi nel 1632,
partecipando nuovamente alle guerre in Fiandra e nel Palatinato. <br /><span>Nel
romanzo non compare mai direttamente come personaggio, anche se è
spesso citato quale governatore di Milano e occasionalmente è coinvolto
nelle vicende di fantasia dei protagonisti: nel cap. XII l'autore ricostruisce </span>le cause della carestia
che affligge il Milanese e ricorda che don Gonzalo è impegnato
nell'assedio di Casale del Monferrato, mentre il gran cancelliere Ferrer
in sua assenza impone un calmiere sul prezzo del pane; il governatore
nomina in seguito una giunta per decidere in merito alla questione e la
revoca del calmiere stabilita da quest'ultima scatena di fatto il tumulto di S. Martino. L'assedio di Casale va per le lunghe e lo scrittore riferisce nel cap. XXVII
che don Gonzalo si lamenta per il poco aiuto offerto dalla corte
spagnola e per la condotta non limpida dell'alleato sabaudo, osservando
con ironia che, secondo alcuni storici, le operazioni sono rallentate
"per i molti spropositi che faceva". In seguito alla sommossa dell'11
novembre 1628 è costretto a rientrare precipitosamente a Milano e, in
occasione di una visita ufficiale del residente di Venezia (la
Repubblica era potenziale alleata dei Francesi) si lamenta del fatto che
lo Stato vicino abbia offerto asilo a Renzo, fuggito in seguito ai disordini di S. Martino; la Repubblica svolge alcune indagini superficiali nel territorio di Bergamo
che non danno alcun esito e quando viene riferita la risposta al
governatore, tornato all'assedio di Casale, questi alza la testa "come
un baco da seta che cerchi la foglia", si ricorda in modo fugace della
questione sollevata a suo tempo e poi non ci pensa più (la vicenda è
ovviamente invenzione del romanziere, ma serve a caratterizzare don
Gonzalo come un politico superficiale e vanesio).<br /><span>Viene citato
occasionalmente quale autore di gride e provvedimenti per ribassare il
prezzo del pane in seguito alla rivolta di novembre 1628 (cap. XXVIII)</span>,
mentre viene ricordato che in seguito all'intervento delle truppe
francesi è costretto a togliere l'assedio da Casale, nella primavera del
1629. L'eventualità sempre più concreta di un passaggio dei
Lanzichenecchi in Lombardia per porre l'assedio a Mantova e,
conseguentemente, il timore che ciò diffonda il contagio della peste,
spingono il membro del Tribunale di Sanità Alessandro Tadino a
rappresentare la cosa al governatore, il quale però sottovaluta il
pericolo e risponde che "non sapeva che farci", poiché le ragioni per
cui quell'esercito si è mosso sono di ordine superiore e, quindi,
bisogna confidare nella Provvidenza divina. Poco dopo Gonzalo viene
rimosso dalla carica di governatore per il cattivo esito della guerra da
lui promossa e lascia Milano tra i fischi e le rimostranze del popolo,
che lo accusa per la fame sofferta e gli imputa l'incuria dimostrata nel
suo governo, senza contare la negligenza adoperata nel fronteggiare il
rischio della peste; verrà sostituito dal genovese Ambrogio Spinola e in seguito (cap. XXXI)
la voce popolare lo indicherà come il mandante degli untori durante la
peste, quale vendetta "per gl'insulti ricevuti nella sua partenza". <br /><span>Il personaggio viene spesso tratteggiato in maniera impietosa d</span>all'autore,
che lo rappresenta come un politico incompetente e ambizioso,
interessato più alla gloria personale e alle vicende della guerra che
non alla popolazione milanese affidata al suo governo, esponente di
quegli uomini di Stato del tutto inadeguati al ruolo che ricoprono
(esempio analogo è Antonio Ferrer, corresponsabile nella dissennata
gestione della carestia del 1628). </span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-55086227983409990692018-06-29T23:37:00.002-07:002018-06-29T23:37:53.403-07:00Antonio FerrerÈ il gran cancelliere dello Stato di Milano che esercitò tale carica tra il 1619 e il 1635, sostituendo nel 1628 il governatore don Gonzalo
Fernandez de Cordoba impegnato nell'assedio di Casale del Monferrato: è
uno dei personaggi storici del romanzo ed è in qualche modo
protagonista della rivolta per il pane scatenatasi a Milano il giorno 11 novembre 1628, narrata nei capp. XI, XII e XIII
del libro. Essa trae origine dall'insensata decisione presa proprio dal
Ferrer di imporre un calmiere (ovvero un tetto massimo) sul prezzo del
pane, che non tiene conto delle leggi di mercato e provoca un ribasso
forzoso, che ha come conseguenza l'accorrere del popolo ai forni per
acquistare il pane a buon mercato (XII). I fornai ovviamente protestano
per l'insostenibile perdita economica e chiedono a gran voce la revoca
del calmiere, ma il gran cancelliere dichiara che i bottegai si sono
molto avvantaggiati in passato e torneranno ad arricchirsi quando la carestia
sarà finita, quindi rifiuta di revocare il provvedimento che lo ha reso
tanto popolare presso i cittadini milanesi e lascia ad altri
l'incombenza di farlo (l'autore osserva con amara ironia che non sa se
attribuire ciò alla testardaggine dell'uomo oppure alla sua
incompetenza, giacché è impossibile ora entrare nella sua testa per
capire cosa pensasse). Il risultato è che il governatore incarica una
commissione di decidere in merito alla questione e la revoca del
calmiere stabilita da essa scatena la rabbia del popolo e la sommossa.<br /><span>Ferrer
compare poi come personaggio direttamente nel cap. XIII, allorché
giunge in carrozza a trarre in salvo Ludovico Melzi d'Eril, il vicario
di Provvisione che la folla sta assediando nella sua casa per linciarlo
in quanto presunto responsabile della penuria (in realtà, com'è ovvio,
il funzionario non ha alcuna colpa). Il gran cancelliere </span>è
accolto con acclamazioni di giubilo dalla folla in tumulto, alla quale è
gradito per il calmiere imposto sul pane, quindi il funzionario
blandisce i rivoltosi con parole lusinghiere promettendo di condurre il
vicario in prigione e di volerlo castigare, ma aggiungendo alcune parole
in spagnolo ("<span style="font-style: italic;">si es culpable...</span>",
se è colpevole) per ingannare la gente che non è in grado di
comprendere. Dopo che la carrozza è avanzata lentamente tra la folla
assiepata di fronte alla casa del vicario (in mezzo alla quale c'è anche
Renzo
che si dà un gran daffare per aiutare Ferrer ad arrivare alla porta),
il gran cancelliere scende e riesce non senza fatica a infilarsi nella
casa, da dove poi trae il vicario che fa salire sulla carrozza e conduce
via, continuando a rivolgersi alla folla e a promettere severi castighi
verso il funzionario, al quale tuttavia spiega in spagnolo che dice
questo solo "<span style="font-style: italic;">por ablandarlos</span>",
per rabbonirli. Quando finalmente la carrozza è lontana dal tumulto e i
due sono protetti da alcuni soldati, Ferrer mostra il suo vero volto
rispondendo in modo cinico al povero vicario, il quale manifesta
l'intenzione di lasciare la sua carica e di ritirarsi in una "grotta",
mentre il cancelliere dice che egli farà ciò che sarà più conveniente
per il servizio al re spagnolo. La figura del Ferrer è delineata in
maniera ironica e impietosa dall'autore, che lo rappresenta dapprima
come un testardo incompetente che con i suoi provvedimenti insensati è
stato causa della rivolta, poi come un attore consumato che riesce ad
abbindolare la folla con un discorso ingannevole e un uso astuto del
linguaggio, sia pure per ottenere il nobile fine di salvare il vicario
dal linciaggio (si veda l'approfondimento del cap. XIII). <br />Viene citato in precedenza nel cap. III, quando l'Azzecca-garbugli
mostra a Renzo la grida del 15 ottobre 1627 che prevede pene
severissime a chi minaccia un curato e in calce alla quale il giovane
legge la firma del gran cancelliere, "<span style="font-style: italic;"><span style="font-style: italic;">vidit Ferrer</span></span>"
(Renzo se ne ricorderà nel cap. XIII, quando il funzionario arriverà in
carrozza e lui chiederà ai rivoltosi se è "quel Ferrer che aiuta a far
le gride"). In seguito Renzo lo cita più volte come un galantuomo che
aiuta la povera gente nel suo improvvisato discorso di fronte alla folla
(XIV), quando attira l'attenzione del poliziotto travestito, mentre nel momento in cui il notaio criminale lo arresta (XV)
chiede di essere condotto dal gran cancelliere, affermando che quello
gli è debitore (il giovane allude al fatto che ha dato una mano a far
stare indietro la folla, quando la carrozza di Ferrer ha raggiunto la
casa del vicario di Provvisione). Si parla ancora di lui nel cap. XXVIII,
quando l'autore spiega che a Milano, in seguito alla rivolta dell'11 e
del 12 novembre 1628, il pane si vende nuovamente a buon prezzo e ciò in
forza di provvedimenti di legge tra cui una grida datata 15 novembre a
firma del gran cancelliere, in cui si minacciano pene severe a chiunque
acquisti pane in misura eccedente il bisogno e ai fornai che non ne
vendano al pubblico in quantità sufficiente (Manzoni osserva con la
consueta ironia che, se tali gride fossero state eseguite, il ducato di
Milano avrebbe avuto più galeotti della Gran Bretagna nel XIX secolo).
All'inizio del cap. XXXII, infine, viene detto che il nuovo governatore di Milano, Ambrogio Spinola,
risponde in modo evasivo alle insistenti richieste dei decurioni (i
magistrati municipali della città) in merito alle strettezze economiche
per far fronte alla peste, cosicché il Ferrer gli scrive che la sua risposta era stata letta dai decurioni <span style="font-style: italic;">"con gran desconsuelo"</span>
(con vivo dispiacere) e in seguito lo Spinola trasferisce con "lettere
patenti" al gran cancelliere tutti i poteri in merito all'epidemia, dal
momento che il governatore è impegnato nell'assedio di Casale del
Monferrato.<br /><span></span><span>Legato a Ferrer è anche il personaggio del suo cocchiere, lo spagnolo Pedro, al quale il gran cancelliere (XIII) si rivolge con parole in spagnolo che sono quasi passate in proverbio ("<span style="font-style: italic;">Pedro, </span></span><span style="font-style: italic;">adelante</span> <span><span style="font-style: italic;">con juicio</span></span>", avanti con prudenza, in riferimento alla difficoltà di far avanzare la carrozza in mezzo alla folla).Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-64865708108208598762018-06-29T23:34:00.002-07:002018-06-29T23:34:32.102-07:00Il Marchese Erede di Don Rodrigo<span style="font-size: large;">Compare nel capitolo finale del romanzo (XXXVIII) ed è l'aristocratico che eredita tutti i beni di don Rodrigo, morto di peste al lazzaretto di Milano: giunge al palazzotto del defunto signore per entrare in possesso dell'eredità e il suo arrivo è riferito da Renzo a don Abbondio, come prova dell'avvenuta morte del signorotto e indurre così il curato a celebrare finalmente il matrimonio tra lui e Lucia. Il fatto è confermato anche dal sagrestano Ambrogio
e solo allora don Abbondio si rassicura e si lascia andare ad alcune
considerazioni poco lusinghiere sul conto di don Rodrigo, mentre il
marchese è da lui definito "un bravo signore davvero" e "un uomo della
stampa antica". Il giorno dopo è lo stesso marchese a fare visita al
curato e in quest'occasione il nobile è descritto come "un uomo tra la
virilità e la vecchiezza" e oltre a ciò "aperto, cortese, placido,
umile, dignitoso", proprio l'opposto di ciò che era stato don Rodrigo:
egli porge a don Abbondio i saluti del cardinal Borromeo
e chiede notizie dei due giovani un tempo perseguitati dal defunto
parente, al che il curato risponde che sono scampati alla peste e in
procinto di sposarsi; il marchese chiede cosa possa fare per aiutarli e
riparare così in parte al male commesso da don Rodrigo (egli ha infatti
perso i suoi due figli e la moglie, dunque possiede un vasto patrimonio
accresciuto da tre eredità) e il curato gli propone prontamente di
acquistare i terreni di Renzo e Agnese, i quali sono in predicato di lasciare il paese per trasferirsi insieme a Lucia nel Bergamasco
e devono perciò trovare un compratore per le loro proprietà. Il
marchese non solo accoglie il suggerimento, ma propone a sua volta a don
Abbondio di fissare lui il prezzo e di andare subito a casa di Lucia
per intavolare la trattativa: durante il tragitto, il sacerdote chiede
al nobile di interessarsi per far revocare il mandato di cattura che
pende ancora su Renzo per via dei fatti del tumulto
di S. Martino a Milano, cosa che il marchese si impegna a fare anche
perché il curato assicura che il giovane non ha commesso gravi reati.
Giunti a casa di Lucia e Agnese, dove ci sono anche Renzo e la mercantessa,
la trattativa viene presto conclusa con il marchese che pattuisce un
prezzo molto alto per l'acquisto delle terre e invita a pranzo tutta la
compagnia per il giorno dopo le nozze in quello che fu il palazzo di don
Rodrigo, per stilare il compromesso legale. Qui il marchese riserva
agli sposi una calda accoglienza e poi li mette a tavola con Agnese e la
mercantessa in un tinello, mentre lui si ritira a pranzare con don
Abbondio in un'altra sala, suscitando l'osservazione ironica del
narratore circa il fatto che sarebbe stato assai più semplice pranzare
tutti assieme: l'autore lo definisce "umile", ma non "un portento
d'umiltà", aggiungendo che ne "aveva quanta ne bisognava per mettersi al
di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari" (egli
allude alla rigida divisioni in classi sociali in base alla quale era
impensabile per un aristocratico sedere alla stessa tavola con borghesi e
popolani, benché tale visione sociale fosse in certo modo ancora in
vigore anche al tempo di Manzoni). Il personaggio rappresenta comunque
l'unica eccezione fra i personaggi nobili
del romanzo, in quanto non sembra condividere l'attaccamento alle
concezioni di onore e cavalleria che sono all'origine di molti soprusi a
danno degli umili e, soprattutto, cerca di riparare ai torti commessi
da don Rodrigo, agevolando di fatto l'inizio della nuova vita degli
sposi in quella che sarà la loro nuova patria.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-3729029107661286372018-06-29T23:32:00.001-07:002018-06-29T23:32:51.044-07:00Don FerranteÈ il nobiluomo milanese che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotto nel cap. XXV, col dire che la moglie donna Prassede
lo incarica di scrivere una lettera al cardinale per informarlo della
decisione di ospitare la ragazza, compito che l'aristocratico svolge con
la consueta maestria (egli è descritto fin dall'inizio come un uomo
dotto e letterato, infatti nella lettera egli inserisce molti "fiori",
ovvero sottigliezze retoriche da cui il Borromeo dovrà ricavare "il
sugo"). Il casato del personaggio non viene nominato e tale omissione è
come al solito imputata alla reticenza dell'anonimo, anche se il
cardinale approva la decisione di mandare Lucia nella sua casa dove, è
certo, sarà al sicuro dalle insidie di don Rodrigo,
benché il prelato conosca donna Prassede per essere una persona non
proprio adatta all'ufficio di proteggere la ragazza, per via del suo
eccessivo zelo nei confronti del prossimo. Don Ferrante viene poi
descritto nel cap. XXVII
come un uomo che passa per essere molto dotto, anche se attraverso di
lui l'autore svolge una sottile quanto corrosiva critica della cultura
del Seicento, frivola e priva di profondi significati: in casa il
nobile non vuole comandare né ubbidire, quindi si sottrae alla
"tirannia" esercitata dalla moglie e la compiace solo quando si tratta
di scrivere per lei una lettera indirizzata a un gran personaggio, per
quanto anche in questo rifiuti talvolta di darle il suo aiuto. Possiede
una biblioteca che conta circa trecento volumi (un numero considerevole
per l'epoca) e nella quale l'uomo trascorre molto tempo sprofondato
nelle sue letture, gloriandosi di essere esperto in vari campi del
sapere: l'autore passa in rassegna le opere più significative di questa
raccolta in cui emerge il carattere insulso della cultura dell'epoca,
dal momento che don Ferrante risulta particolarmente versato
nell'astrologia, nella filosofia antica (Aristotele è ovviamente la sua
autorità indiscussa, per quanto sia presente fra gli scrittori anche il
contemporaneo Cardano, autore di scarsissimo peso), nella naturalistica
(grande spazio hanno i descrittori di <span style="font-style: italic;">mirabilia</span>
antichi e moderni), nella magia e nella stregoneria, nella storia,
nella politica (qui viene esaltato Valeriano Castiglione, scrittore del
XVII sec. di nessun valore) e soprattutto nella scienza cavalleresca,
dove il personaggio viene considerato una specie di autorità (è evidente
la polemica del Manzoni contro la concezione distorta dell'onore e
della cavalleria, fonte di tanti soprusi e ingiustizie all'epoca del
romanzo).<br /><span>La sua morte per la peste viene narrata alla fine del cap. XXXVII
e anche questa è un'occasione per mettere in ridicolo le sue presunte
conoscenze "scientifiche" e il carattere insulso della filosofia
dell'epoca, all'origine di tante errate credenze riguardanti la
terribile epidemia</span>: don Ferrante infatti nega risolutamente che
il contagio possa propagarsi da un corpo all'altro e si esibisce in un
complesso ragionamento che si appoggia sulla logica aristotelica
(rigoroso in sé, ma che ovviamente non tiene conto delle cognizioni
scientifiche e mediche inerenti al caso), quindi attribuisce la peste
agli influssi astrali e in particolare alla congiunzione di Giove e
Saturno, origine a suo dire dell'epidemia e contro la quale è
perfettamente inutile prendere precauzioni come quelle prescritte dai
medici, quali il bruciare i panni degli appestati e simili. Convinto di
queste considerazioni, don Ferrante non prende alcuna misura per evitare
il contagio e ovviamente si ammala di peste, andando a letto "a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre le sua
"famosa libreria" è forse ancora "dispersa su per i muriccioli", ovvero
è stata venduta sulle bancarelle dei libri usati.<br /><span>Nel </span><em>Fermo e Lucia</em>
il personaggio è inizialmente presentato come don Valeriano (III, 4),
ricco gentiluomo milanese sposato con donna Margherita e con un'unica
figlia, Ersilia, mentre in seguito (III, 9) il nome diventa quello poi
definitivo di don Ferrante e la moglie sarà ugualmente ribattezzata
donna Prassede. Nella prima stesura la presentazione della famiglia
nobile e la descrizione della vita di Lucia nella loro casa di Milano
sono assai più prolisse e ricche di personaggi secondari (il maggiordomo
Prospero, la governante Ghita incaricata di sorvegliare Lucia...),
parti poi eliminate nell'edizione finale dei <em>Promessi sposi</em>.
Altrettanto curioso il fatto che inizialmente la "dotta" disputa sulla
peste sia inclusa nella digressione storica sull'epidemia (IV, 3) e
inserita in un dialogo con un signor Lucio, altro nobile ignorante e
saccente che strepita contro i regolamenti del Tribunale di Sanità e
contro la scienza medica (l'episodio verrà poi drasticamente ridotto e
posto alla fine del cap. XXXVII, a margine del racconto della morte di
don Ferrante).Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-73736225833976677742018-06-29T23:30:00.001-07:002018-06-29T23:30:05.395-07:00Bortolo Castagneri<span style="font-size: large;">È il cugino di Renzo che vive e lavora in un paese vicino a Bergamo
(nel territorio che all'epoca faceva parte della Repubblica di Venezia)
e che offre rifugio e lavoro al protagonista dopo la sua fuga da Milano in seguito al tumulto di S. Martino, quando è braccato dalla giustizia: è nominato per la prima volta nel cap. VI, quando Agnese propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" e Renzo progetta a sua volta di trasferirsi con Lucia
e la madre nel Bergamasco, dove appunto suo cugino Bortolo è impiegato
in un filatoio di seta e dove ha spesso invitato il protagonista a
raggiungerlo, poiché in quel territorio gli operai della seta sono molto
richiesti. In seguito Renzo sarà costretto a rifugiarsi nel Bergamasco
come fuggitivo e<span></span> qui raggiungerà il cugino nel paese in cui vive (XVII), ricevendo una calorosa accoglienza nel filatoio in cui lavora e di cui l'uomo è diventato il <span style="font-style: italic;">factotum</span>, essendo tra l'altro il braccio destro del proprietario (viene lasciato intendere che l'uomo è nato nello stesso paese
del protagonista e che conosce bene Lucia e Agnese, dunque si è
trasferito tempo prima nel Bergamasco senza tuttavia che sia precisato
quando ciò è avvenuto). Bortolo spiega a Renzo che in questo momento non
c'è richiesta di operai a causa della crisi, ma aiuterà comunque il
cugino in quanto gode del favore del padrone e ha messo da parte
discreti guadagni, perciò sarà lieto di condividere questo benessere con
un membro della famiglia. Informa Renzo del fatto che la carestia
è presente anche in quel territorio, tuttavia la politica dello Stato
veneto è più oculata di quella di Milano e questo permette di alleviare
le sofferenze della popolazione, sia con l'acquisto di grano a buon
mercato proveniente dalla Turchia, sia con l'importazione di miglio per
produrre del pane a minor prezzo. Bortolo spiega infine al cugino che i
Milanesi vengono definiti dai Bergamaschi "baggiani" (sciocchi), cosa
che irrita Renzo ma alla quale dovrà rassegnarsi poiché si tratta di
un'usanza inveterata, cui è necessario abituarsi se si vuol vivere in
quel territorio; presenta poi Renzo al suo padrone e gli procura un
impiego al filatoio e un ricovero, sistemandolo alla meglio durante il
primo periodo della sua "latitanza".<br />Tempo dopo l'uomo è informato del fatto che la giustizia della Repubblica sta facendo indagini su Renzo (XXVI), in seguito alle proteste che il governatore don Gonzalo
ha rivolto al residente di Venezia a Milano, quindi si affretta a
consigliargli di cambiare paese e trovare lavoro in un altro filatoio,
cambiando anche nome per prudenza: lo presenta come Antonio Rivolta al
padrone di un altro stabilimento a circa quindici miglia dal suo paese,
raccomandando il cugino come ottimo lavoratore della seta e riuscendo a
sistemarlo lì (il proprietario è suo amico e originario lui pure del
Milanese). In seguito risponde alle molte domande sulla scomparsa di
Renzo in modo evasivo, diffondendo voci contraddittorie sulla sua sorte
che arrivano all'orecchio di Agnese e non consentono neppure al cardinal
Borromeo di prendere informazioni sul giovane fuggiasco, come aveva promesso alla donna e a Lucia.<br /><span>Renzo
resta nel suo nuovo nascondiglio per cinque o sei mesi, al termine dei
quali Bortolo si affretta a richiamarlo al suo paese in quanto Venezia e
la Spagna sono ora nemiche nella guerra di Mantova e non c'è più pericolo (XXXIII):</span>
l'autore spiega la sollecitudine di Bortolo perché questi è
sinceramente affezionato al cugino, ma soprattutto perché al filatoio
Renzo era di grande aiuto al <span style="font-style: italic;">factotum</span>
senza potere aspirare a occupare quella funzione in quanto
semi-analfabeta (apprendiamo che l'aiuto offerto a Renzo non è del tutto
disinteressato e l'autore osserva con ironia che forse i lettori
vorrebbero "un Bortolo più ideale", ma quello "era così"). Dopo aver
appreso per lettera del voto di Lucia, Renzo coltiva più volte il
proposito di arruolarsi e partecipare alla guerra contro il Ducato di
Milano, specie nell'eventualità che sembra imminente di un'invasione di
questo da parte di Venezia, ma Bortolo riesce a dissuaderlo
illustrandogli i pericoli dell'impresa e mostrandosi scettico sulla sua
riuscita (si intuisce che, anche in questo caso, i consigli dell'uomo
non sono del tutto spassionati). Per gli stessi motivi dissuade Renzo
dal proposito di tornare al suo paese sotto mentite spoglie, finché
scoppia l'epidemia di peste
del 1630 e il giovane si ammala, riuscendo però a guarire e decidendo
di approfittare del flagello per tornare nel Milanese: informa della sua
risoluzione Bortolo, che è ancora sano e perciò gli parla da una
finestra, augurandogli buon viaggio ed esortandolo a tornare da lui alla
fine della pestilenza (Renzo promette di farlo e spera di non tornare
da solo).<br /><span>Alla fine delle vicende del romanzo Renzo</span> va a stabilirsi con le due donne nel paese di Bortolo (XXXVIII)
e questi, venuto a sapere che il padrone di un filatoio alle porte di
Bergamo è morto di peste e il figlio intende vendere la fabbrica,
propone al cugino di entrare in società per rilevarlo: Renzo accetta e
così i due acquistano lo stabilimento, iniziando una lucrosa attività
che, dopo gli stentati inizi, diventa quanto mai florida.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-7399319098093165742018-06-29T23:27:00.002-07:002018-06-29T23:27:17.902-07:00Il Capitano di Giustizia<span style="font-size: large;">Compare nel cap. XII, durante la sommossa a Milano del giorno di S. Martino, e viene presentato in occasione dell'assalto al forno delle Grucce:
è l'ufficiale incaricato di mantenere l'ordine pubblico in città,
dunque viene mandato a chiamare quando la folla dei rivoltosi si
avvicina minacciosamente alla bottega. Si presenta alla testa di una
squadra di alabardieri e tenta inutilmente di blandire la folla con
parole diplomatiche, promettendo clemenza a chi se ne tornerà a casa; in
seguito entra nel forno e si affaccia a una finestra, tornando a
rivolgersi ai rivoltosi con parole lusinghiere, finché una pietra non lo
colpisce alla testa e lo induce a cambiare improvvisamente tono (l'uomo
prorompe nell'esclamazione "Ah canaglia!", mentre poco prima diceva che
i milanesi sono famosi nel mondo per la loro bontà). Quando la folla
irrompe all'interno del forno si nasconde in un angolo, lasciando di
fatto che la bottega sia messa a soqquadro dai rivoltosi. In seguito è
nominato nel cap. XV, quando l'oste della Luna Piena va a rendere la sua deposizione al palazzo di giustizia e viene spiegato che il poliziotto
travestito che ha raggirato Renzo era proprio un "bargello"
sguinzagliato dal capitano per arrestare qualcuno dei rivoltosi e dare
un pronto esempio ai sediziosi. È una delle figure più amaramente
comiche del romanzo, rappresentando l'impotenza dell'amministrazione
giudiziaria di fronte ai moti popolari.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-78713063014617907622018-06-29T23:20:00.003-07:002018-06-29T23:20:23.655-07:00Il Vicario delle Monache<span style="font-size: large;">Compare nel cap. X ed è il sacerdote incaricato di esaminare Gertrude prima del suo ingresso nel monastero di Monza
come novizia, col compito di accertare la sincerità della sua vocazione
ed escludere che abbia subìto delle pressioni: è presentato come un
"grave e dabben prete", anche se giunge al palazzo del principe padre
della ragazza con una certa convinzione dell'effettiva volontà di
quest'ultima circa il prendere il velo, dunque mostrando almeno in parte
una certa ingenuità. L'uomo chiede subito a Gertrude se le siano state
rivolte "minacce, o lusinghe" per indurla a farsi monaca, cosa alla
quale la ragazza risponde prontamente dicendo che la sua decisione è
libera, quindi il prete le domanda da quando abbia avuto questo pensiero
e Gertrude ribatte che l'ha "sempre avuto". Quando la giovane dichiara
che il motivo che la spinge è il desiderio "di servire Dio, e di fuggire
i pericoli del mondo", il vicario insinua senza troppa convinzione che
all'orgine potrebbe esserci qualche "disgusto", ma Gertrude è abile a
dissimulare il vero motivo (le minacce e le costrizioni del padre) e
dunque l'esaminatore si stanca di interrogarla prima che lei si stanchi
di mentirgli. L'uomo si complimenta con la ragazza e poi lascia la sala,
imbattendosi successivamente nel principe che sembra passare di lì per
caso (ed è in realtà in ansiosa attesa dell'esito del colloquio), al
quale comunica il felice risultato dell'esame cui ha sottoposto la
figlia.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-8679384365839064592018-06-29T23:18:00.000-07:002018-06-29T23:18:11.593-07:00Il padre provinciale dei cappuccini<span style="font-size: large;">Compare nel cap. XIX ed è il cappuccino più alto in grado nel territorio dov'è situato il convento di Pescarenico, al quale si rivolge il conte zio su suggerimento del conte Attilio al fine di far allontanare padre Cristoforo dal convento ed eliminare, così, un ostacolo alle mire di don Rodrigo su Lucia.
Il prelato è invitato a pranzo dall'uomo politico e siede a una superba
tavolata insieme a commensali di alto rango, parenti titolati del conte
e servili clienti: in un successivo colloquio a due, il conte zio
insinua calunniosi sospetti sulla condotta di fra Cristoforo, alludendo
alla sua protezione nei riguardi di Renzo (ricercato dalla giustizia per il tumulto
di S. Martino), al suo passato turbolento, allo scontro con don Rodrigo
per un'imprecisata questione. Il conte zio lascia intendere che la cosa
dovrebbe essere stroncata sul nascere, onde evitare spiacevoli
conseguenze che potrebbero coinvolgere altri nobili imparentati con la
potente casata, così il padre, nonostante una debole e sempre meno
convinta difesa d'ufficio di fra Cristoforo, è costretto ad accogliere
la richiesta di allontanarlo dal suo convento. Decide di inviarlo perciò
a Rimini, dove gli è richiesto un predicatore per la Quaresima, il che
suscita la viva approvazione del conte zio, che sollecita d'altra parte
l'urgenza del provvedimento. L'uomo politico si complimenta poi col
prelato per la brillante soluzione a una faccenda che poteva diventare
rischiosa, cedendogli rispettosamente il passo prima di uscire dalla
stanza e riunirsi agli altri invitati.<span> L'autore accenna alla sua morte nel corso del cap. XXXI, dedicato al diffondersi della peste a Milano, </span>col dire che il commissario che ne fa le veci decide di affidare la direzione del lazzaretto a padre Felice Casati (il romanziere non precisa se il padre provinciale sia morto di peste o meno).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-33474191013284813822018-06-29T23:16:00.000-07:002018-06-29T23:16:02.705-07:00Il padre guardiano del convento di Monza<span style="font-size: large;">Compare nel cap. IX ed è il cappuccino del convento di Monza a cui padre Cristoforo ha indirizzato Agnese e Lucia,
scrivendo loro una lettera di presentazione per il frate: questi la
legge con attenzione, mostrando una certa riprovazione per quanto vi
viene descritto, quindi conclude che solo la "Signora" (Gertrude,
la monaca del convento della città) può offrire protezione alle due
donne. Si dice disposto ad accompagnarle al chiostro, raccomandando
tuttavia di seguirlo a una certa distanza per evitare che la gente
chiacchieri vedendolo in compagnia di una "bella giovine", anche se poi
si corregge dicendo "con donne". Presenta Agnese e Lucia a Gertrude e
fornisce scarni particolari sulla persecuzione di don Rodrigo,
anche se poi la monaca chiede ulteriori dettagli. È molto contento del
fatto che la "Signora" accetti di ricoverare Lucia nel monastero e si
affretta a informare padre Cristoforo con una lettera, dicendo tra sé
che "anche noi qui, siam buoni a qualche cosa", soddisfatto di esser
riuscito a trovare per le due donne un rifugio che egli reputa del tutto
sicuro.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-75137877689177125042018-06-29T23:13:00.003-07:002018-06-29T23:13:54.765-07:00Padre Felice CasatiÈ il frate cappuccino a cui viene affidato il governo del lazzaretto durante la peste
del 1630, assieme a padre Michele Pozzobonelli che gli fa da aiutante:
personaggio storico (1583-1656), milanese, padre Felice Casati fu per
due volte provinciale dell’Ordine e dopo essere scampato all'epidemia
(si ammalò di peste e ne guarì) fu inviato nel 1644 a Madrid per
ottenere dal re Filippo IV un alleggerimento delle tasse, dal momento
che il paese era stremato dalla guerra e dai flagelli. Ciò gli valse
molte inimicizie, tanto che fu mandato in Corsica per due anni malgrado
le proteste dei suoi concittadini; nel 1656 fu eletto Custode generale e
partì a piedi per Roma per partecipare a un'importante riunione, ma
giunto a Livorno si ammalò e morì misteriosamente, fatto in cui alcuni
vollero vedere la <span style="font-style: italic;">longa manus</span> del governo spagnolo. Fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di quella città. <br /><span>L'autore lo introduce nel cap. XXXI del romanzo, col dire appunto che a lui il Tribunale</span>
di Sanità affida la direzione del lazzaretto cui diventa sempre più
arduo provvedere nel dilagare dell'epidemia, incarico che il cappuccino
svolge con incredibile solerzia grazie anche all'aiuto di molti
confratelli (Manzoni sottolinea i meriti straordinari degli
ecclesiastici nel prendersi cura degli ammalati e dei bisognosi durante
l'epidemia, spesso supplendo alle mancanze e all'incapacità del potere
pubblico). Compare poi come personaggio autonomo nel corso del cap. XXXVI, quando guida la processione dei guariti destinati alla quarantena fuori del lazzaretto, fra i quali Renzo (che si è introdotto lì fortunosamente e vi ha incontrato padre Cristoforo) spera invano di trovare la sua Lucia:
il frate rivolge un breve ma sentito discorso ai guariti, che viene
attentamente ascoltato da Renzo e che è un raro esempio di oratoria
appassionata e piena di sentimento religioso, nel quale invita i guariti
a non gioire rumorosamente della loro fortuna e a provare compassione
per quelli che restano in quel luogo di sofferenza, ringraziando Dio per
la misericordia che è loro toccata. Il "mirabil frate" si avvolge poi
una corda intorno al collo, in segno di umiltà, e dopo essersi
inginocchiato chiede perdono agli ammalati se talvolta non è stato
sollecito nel rispondere alle loro chiamate e a curarli con la
necessaria solerzia, parole che suscitano la viva commozione di tutti i
presenti, incluso Renzo. Il cappuccino poi si alza, solleva una gran
croce e si toglie i sandali, precedendo scalzo il corteo dei guariti che
conduce fuori dal lazzaretto, sotto gli occhi attenti di Renzo che non
scorge Lucia tra quel gruppo di persone fortunate (egli troverà la
ragazza poco dopo dentro una capanna, insieme alla mercantessa). <br /><span></span>Attraverso
la figura di padre Felice l'autore tratteggia un imponente ritratto di
religioso totalmente dedito al prossimo e pronto al sacrificio assoluto
di sé, molto simile allo stesso padre Cristoforo e in generale a tutti i
cappuccini, fra i quali spiccano l'amore per il prossimo, l'abitudine
all'obbedienza, la volontà di servire i poveri (non a caso lo stesso
Cristoforo chiede di essere mandato a Milano per occuparsi degli appestati, morendo poi nel lazzaretto come si apprenderà nel cap. XXXVII). Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-34676547408292724012018-06-29T23:12:00.001-07:002018-06-29T23:12:17.609-07:00La Madre Badessa<span style="font-size: large;">Compare nei capp. IX-X ed è la madre superiora del convento di Monza in cui Gertrude è monaca, lo stesso nella quale la giovane era stata collocata dal padre
come educanda: essa ha un ruolo attivo nella "cospirazione" ordita dal
principe per indurre la figlia a farsi monaca, per cui la ragazza gode
nel monastero di ampi privilegi rispetto alle altre educande e viene
indotta a sottoscrivere la supplica al vicario per essere sottoposta
all'esame (per il chiostro avere Gertrude come monaca sarebbe un
indubbio vantaggio "politico"). Manifesta tutta la sua disapprovazione a
Gertrude quando lei scrive una lettera al padre in cui esprime riserve
sulla sua monacazione (IX) e in seguito, quando la giovane ha dato il
suo consenso, riceve la pubblica visita di lei e della sua famiglia al
convento (X), in occasione della quale rammenta con deferenza e qualche
timore al principe che l'uomo incorrerebbe nella scomunica se mai
forzasse la figlia a quel passo (si tratta di una semplice formalità,
dal momento che la badessa conosce perfettamente i disegni del nobile).
In seguito fa in modo che il capitolo voti a favore dell'accettazione di
Gertrude come novizia e non viene più nominata nel romanzo, salvo
quando la "Signora" la dileggia agli occhi delle educande di cui è
maestra.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-56682106042040941802018-06-29T23:09:00.002-07:002018-06-29T23:09:56.555-07:00Fra Galdino<span style="font-size: large;">È un cercatore laico dei cappuccini, che vive al convento di Pescarenico dove risiede anche il padre Cristoforo:
uomo semplice e dotato di fede candida e ingenua, è un personaggio
secondario che compare in due importanti episodi del romanzo, in
entrambi i quali protagonista è Agnese. Nel primo (cap. III) il frate bussa alla porta della casa di Agnese e Lucia,
chiedendo l'elemosina delle noci, al che la donna ordina alla figlia di
portarle a Galdino: nell'attesa l'uomo racconta il "miracolo delle
noci", intermezzo narrativo e apologo edificante sul valore della carità
che contiene involontari riferimenti al personaggio di don Rodrigo.
Al suo ritorno Lucia consegna al frate una quantità ingente di noci
(attirando la collera di Agnese in quanto l'annata è scarsa), per poi
chiedere a Galdino di pregare il padre Cristoforo di venire da loro
prima possibile. In seguito la giovane spiega alla madre che, se il
cercatore avesse dovuto proseguire la questua anziché tornare subito in
convento, avrebbe perso tempo e si sarebbe probabilmente dimenticato di
avvertire Cristoforo, per cui Agnese approva (seppur a malincuore) la
sua scelta. Nel secondo episodio (XVIII), Agnese si reca al convento di Pescarenico per conferire col padre Cristoforo dopo aver appreso a Monza che Renzo è rimasto coinvolto nei tumulti di Milano ed è fuggito a Bergamo, ma alla porta trova fra Galdino che la informa che Cristoforo è partito per Rimini, su ordine del padre provinciale
dei cappuccini: la donna è costernata e Galdino, con la sua schietta
semplicità, si compiace del fatto che il padre sia stato inviato come
predicatore in una città lontana, poiché i frati cappuccini sono famosi
in tutto il mondo per le loro abilità oratorie. Le propone di rivolgersi
ad altri padri del convento per un parere, nessuno dei quali
naturalmente può soddisfare Agnese che ha fiducia solo in Cristoforo,
per cui la donna è costretta a tornarsene sconsolata al paese. <span>Curioso
è il fatto che fra Galdino citi la Romagna in entrambi gli episodi in
cui compare: lì sorgeva il convento di padre Macario, protagonista del
"miracolo delle noci", e sempre in quella regione (cioè a Rimini) viene
trasferito padre Cristoforo su ordine del padre provinciale.</span><br /><span>Altra curiosità sta nel fatto che nel <em>Fermo e Lucia</em>
il personaggio veniva chiamato fra Canziano (III, 3), mentre il nome di
padre Galdino era inizialmente attribuito al personaggio di padre
Cristoforo.</span></span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-40517785066828655792018-06-29T13:05:00.002-07:002018-06-29T13:05:58.633-07:00Fra Fazio<span style="font-size: large;">Compare nel cap. VIII ed è il laico sagrestano del convento dei cappuccini di Pescarenico: al momento in cui Renzo, Agnese e Lucia giungono al monastero dove li attende padre Cristoforo
oppone delle resistenze a far entrare nel convento delle donne, per
giunta di notte, ma il padre tronca ogni discussione dicendo <span style="font-style: italic;">"Omnia munda mundis" </span>(tutto
è puro per chi è puro), frase che Fazio non intende in quanto non
capisce il latino. Fra Cristoforo osserva tra sé che "se fosse un
masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo;
e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...",
alludendo alla diffusa pratica di dare asilo nei conventi ai ricercati
dalla giustizia. </span><br /><span></span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-43281262453593417212018-06-29T13:04:00.001-07:002018-06-29T13:04:20.909-07:00La Conversa<span style="font-size: large;">Compare nel cap. X ed è una delle laiche che vivono nel convento di Monza in cui Gertrude è monaca: viene a sapere della relazione clandestina tra la "Signora" ed Egidio,
per cui un giorno, dopo che Gertrude l'ha trattata con molta durezza in
seguito a una discussione, si lascia sfuggire che è a conoscenza del
suo segreto e che è decisa a rivelarlo. In seguito la donna scompare e
tutti credono che sia fuggita, specie dopo che si trova una breccia nel
muro dell'orto (viene cercata a Meda, donde è originaria, e in altri
luoghi, senza che se abbia più traccia); alla fine si pensa che si sia
rifugiata in Olanda, mentre essa è stata uccisa da Edigio con la
complicità della monaca (l'autore osserva che, anziché cercare lontano,
si sarebbe dovuto scavare vicino, dunque è probabile che sia stata
sepolta all'interno dello stesso monastero).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-78294720645239458252018-06-29T13:02:00.001-07:002018-06-29T13:02:28.803-07:00Cappellano crocifero<span style="font-size: large;">È il sacerdote che svolge le funzioni di segretario particolare del cardinal Borromeo, solitamente addetto a portare la croce nelle funzioni solenni (da qui il nome): compare nel cap. XXII, allorché l'innominato
si reca a visitare il cardinale e si incarica di riferire al prelato la
presenza del famoso bandito, cosa che fa non senza remore e timori. In
seguito annunzia a Federigo che l'innominato vuole vederlo (XXIII)
e si mostra assai stupito dell'entusiasmo del cardinale, tentando
inutilmente di metterlo in guardia circa la possibilità, invero assai
remota, che il bandito sia lì per assassinarlo. Introduce poi
l'innominato nella sala e, in seguito al colloquio tra i due, è
richiamato dal Borromeo che gli chiede se tra i parroci riuniti lì vi
sia anche quello del paese dei due promessi, ovvero don Abbondio,
al che il cappellano risponde di sì. Gli viene ordinato di chiamare lui
e il curato di quella parrocchia e il cappellano svolge l'ambasciata,
suscitando la viva sorpresa di don Abbondio che esita non poco a
seguirlo dal cardinale. Si occupa infine di fare sellare le due mule che
dovranno portare don Abbondio e l'innominato al castello, per liberare Lucia, e di allestire la lettiga che dovrà portare la moglie del sarto e poi la stessa Lucia dopo la sua liberazione. Compare ancora nel cap. XXV,
in occasione della visita del cardinale al paese di don Abbondio,
durante la quale lo vediamo portare appunto la croce in processione, in
sella a una mula; più avanti introduce dal prelato Agnese
e Lucia, dopo aver dato loro istruzioni circa il modo in cui rivolgersi
al cardinale (l'autore osserva con ironia che l'uomo si preoccupa
eccessivamente del "poco ordine" che regna intorno al suo superiore e
della troppa confidenza che alcuni usano con lui, approfittando della
sua benevolenza). È presentato come un personaggio comico, goffo nel suo
zelo esagerato e nei suoi timori riguardo al cardinale, facendo una
sorta di contrappunto umoristico ai modi solenni e pieni di carità del
suo superiore; rimane pieno di stupore di fronte alla conversione
dell'innominato, comunicandola poi ai curati presenti con la frase
biblica <span style="font-style: italic;">haec mutatio dexterae Excelsi</span> ("questa conversione è opera della mano dell'Altissimo").</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-57774672009246925482015-12-26T00:20:00.002-08:002015-12-26T00:25:42.981-08:00Don Rodrigo - Descrizione<span style="font-size: large;">È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio,
per poi intestardirsi in questo infame proposito al fine di non
sfigurare di fronte agli amici nobili e, quindi, per ragioni di
puntiglio cavalleresco. A questo scopo manda due bravi a minacciare il curato don Abbondio perché non celebri il matrimonio fra i due promessi (cap. I), e in seguito tenta senza successo di far rapire la ragazza dalla sua casa (VIII); si rivolgerà poi all'innominato per ritentare l'impresa quando la giovane è protetta nel convento di Gertrude, a Monza, ma l'inattesa </span><br />
<a name='more'></a><span style="font-size: large;">conversione del bandito manderà a monte i suoi progetti criminosi (XX ss.). Riesce a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico tramite l'intervento del conte zio, che esercita indebite pressioni politiche sul padre provinciale dei cappuccini, e in seguito allo scandalo suscitato dalla conversione dell'innominato lascia il paese per trasferirsi a Milano, dove si ammala di peste e viene ricoverato al lazzaretto. Qui morirà, lasciandoci nel dubbio se si sia ravveduto o meno dei peccati commessi (ottiene comunque il perdono di Renzo, cui il nobile agonizzante viene mostrato da padre Cristoforo).</span><br />
<span style="font-size: large;">Viene presentato come un uomo relativamente giovane, con meno di quarant'anni (ci viene detto nel cap. VI, quando è presentato il servitore
che informerà padre Cristoforo del progettato rapimento di Lucia) e di
lui non c'è una vera e propria descrizione fisica; appartiene a una
famiglia di antico blasone, come dimostra l'appartenenza ad essa del
conte zio, membro del Consiglio Segreto e politico influente, anche se
il nome del casato non viene mai fatto. Non sappiamo molto del suo
passato, salvo il fatto che il padre era uomo di tempra ben diversa e
Rodrigo, rimasto erede del suo patrimonio, si è dimostrato figlio
degenere. Alla fine della vicenda verrà introdotto il suo erede, un marchese che entra in possesso di tutti i suoi beni e che, su suggerimento di don Abbondio, acquisterà le terre di Renzo e Agnese a un prezzo molto alto, per risarcirli dei danni subìti e consentir loro di trasferirsi nel Bergamasco;
in seguito fa anche in modo che la cattura che pesa su Renzo venga
annullata, dimostrando quindi di essere un galantuomo ben diverso dal
suo defunto parente.</span><br />
<span style="font-size: large;">Don Rodrigo è ovviamente un
malvagio, ma mediocre e di mezza tacca, come più volte è evidenziato nel
romanzo: la sua persecuzione ai danni di Lucia non nasce da
un'ossessione amorosa, ma è più un atto di prepotenza sessuale di un
nobile su una povera contadina, oltretutto a causa di una sciocca
scommessa fatta col cugino; egli è il rappresentante di quella aristocrazia
oziosa e improduttiva che Manzoni critica spesso e che esercita soprusi
sui deboli più per passatempo che per crudeltà gratuita. Compare per la
prima volta direttamente solo nel cap. V,
dopo che il suo nome è stato più volte evocato e sempre associato a
un'aura di terrore, mentre alla sua apparizione il personaggio risulterà
assai deludente. Don Rodrigo si mostra timoroso della giustizia e delle leggi, il che lo porta a cercare l'appoggio e la complicità di importanti magistrati come il podestà di Lecco, o di legali come il dottor Azzecca-garbugli,
mentre nutre un sincero terrore per tutto ciò che riguarda la religione
e l'aldilà, come è evidente nel colloquio con padre Cristoforo nel cap.
VI (la frase "Verrà un giorno..." pronunciata dal cappuccino col dito
puntato scatena la sua ira e tale gesto ricorrerà nel sogno del cap. XXXIII, quando il nobile si scoprirà ammalato di peste). La piccolezza morale del personaggio è sottolineata nella scena del cap. XI,
quando il signorotto attende con impazienza il ritorno dei bravi
inviati a rapire Lucia e pensa tra sé alle possibili conseguenze di
quell'atto scellerato (soprattutto, pensa alla protezione che l'amico
podestà e il nome della famiglia potranno assicurargli) e la sua
grettezza emergerà poi nel confronto con l'innominato, personaggio che
dimostra una notevole statura morale tanto nella malvagità quanto nel
successivo ravvedimento (per approfondire: L. Russo, <span style="font-style: italic;">Don Rodrigo uomo senza originalità e grandezza</span>).</span><br />
<span style="font-size: large;">Nel <span style="font-style: italic;">Fermo e Lucia</span>
la fine del personaggio era decisamente diversa, poiché Rodrigo
(moribondo per la peste e in preda al delirio) balzava su un cavallo
dopo aver visto Lucia e lo spronava al galoppo, cadendo rovinosamente e
morendo così sicuramente in disgrazia (nei <span style="font-style: italic;">Promessi Sposi</span>, invece, la notizia della sua morte giunge al paese solo nel cap. XXXVIII; si veda il brano <i>La morte di don Rodrigo</i>).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-55059245603381612952015-12-26T00:16:00.001-08:002015-12-26T00:25:34.650-08:00L'innominato - Descrizione<span style="font-size: large;">È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare il paese e andare a Milano.
L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine
"innominato", dichiarando di non aver trovato documenti dell'epoca </span><br />
<a name='more'></a><span style="font-size: large;">che
lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente
ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto
bandito vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua
vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del
cardinal Federigo. Manzoni conferma tale identificazione in una lettera a
Cesare Cantù, dove allude al feudatario di Brignano Ghiaradadda come al
personaggio del romanzo (in esso finzione e realtà sono abilmente
mescolati, tratto comune a tutte le figure storiche che appaiono nelle
vicende). <br />Viene introdotto a partire dal cap. XVIII,
quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il
rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di
fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato
ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX,
allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche
se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita
scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp.
seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo,
con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei
suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto
testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari
in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato,
che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per
questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti
quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali
che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine
tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi)
devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal
momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o
costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi
vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella
giustizia
che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai
deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e
di grandiosa malvagità che lo rendono uno dei personaggi più
interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo
confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche
perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si
propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità
costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della
giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore
delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, <span style="font-style: italic;">Don Rodrigo</span>). <br />L'intervento
dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché
con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il
bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione
diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine
più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione
simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo
(convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo
una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In
seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che
accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si
propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi
della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a
vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui,
mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun
provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono
una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza
col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e
fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come
risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di
cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX)
il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno
dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese,
che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non
viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta
la sua morte.<br />Il personaggio era protagonista già del <span style="font-style: italic;">Fermo e Lucia</span>,
in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si
arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di
un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome,
cfr. il testo):
il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e
con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano <i>Il Conte del Sagrato e don Rodrigo</i>), mentre nei <span style="font-style: italic;">Promessi sposi</span>
il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto,
inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento
interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da
adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto
forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato
eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione,
inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo
conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa
cenno (cfr. il brano <i>Il finale della storia</i>).</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-14990213897782569212015-12-26T00:14:00.002-08:002015-12-26T00:25:25.364-08:00Il Conte Attilio - Descrizione<span style="font-size: large;">È un aristocratico cugino di don Rodrigo, che risiede abitualmente a Milano e che, nei capp. iniziali del romanzo, trascorre un periodo di villeggiatura ospite nel palazzo
del signorotto: viene descritto come un nobile ozioso, che vive di
rendita come il cugino e che si diverte a passare il tempo tra scherzi,
sciocche dispute cavalleresche e comportamenti frivoli (per
approfondire: G. Bàrberi Squarotti, <span style="font-style: italic;">Il conte Attilio, ritratto di un'anima frivola</span>). Di lui si parla già nel cap. III, quando Lucia
racconta di averlo visto insieme a don Rodrigo allorché quest'ultimo
l'ha importunata per strada e di averlo sentito ridere insieme al cugino
parlando di una scommessa </span><br />
<a name='more'></a><span style="font-size: large;">(dunque il signorotto ha scommesso con lui
che riuscirà a sedurre la giovane popolana e apprenderemo in seguito,
nel cap. VII, che il termine fissato è il giorno di S. Martino, l'11 novembre). Compare direttamente per la prima volta nel cap. V, quando padre Cristoforo
va al palazzo di don Rodrigo per parlargli e lo trova a tavola con i
suoi commensali, fra cui appunto il cugino: questi chiama subito a gran
voce il frate quando il religioso si affaccia timidamente alla porta
della sala, obbligando Rodrigo ad accoglierlo benché ne avrebbe fatto
volentieri a meno, e Cristoforo verrà poi trascinato nell'insulsa
disputa cavalleresca che oppone Attilio al podestà
di Lecco, riguardante una sfida a duello. Il cappuccino risponderà che
per lui non dovrebbero mai esservi sfide o duelli, al che il conte
ribatterà che un mondo senza il "punto d'onore" sarebbe inimmaginabile
(nonostante la sua frivolezza, infatti, Attilio si mostra molto
attaccato ai suoi privilegi nobiliari e particolarmente geloso dell'onore della propria famiglia). È lui a rivolgersi al conte zio, importante uomo politico milanese, affinché faccia allontanare padre Cristoforo da Pescarenico,
facendo leva proprio sul concetto di "onore" che è minacciato dal frate
e fornendo ovviamente allo zio una versione addomesticata della vicenda
che coinvolge Rodrigo e Lucia. La sua morte per la peste viene menzionata all'inizio del cap. XXXIII,
quando si dice che don Rodrigo ha pronunciato un bizzarro elogio
funebre in onore del cugino durante una cena con amici a Milano.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-5053162679371010025.post-10376805904312735532015-12-25T10:01:00.001-08:002015-12-25T10:01:12.658-08:00Capitolo XXXVIII - Analisi e Commento
<span style="font-size: large;"><strong>Luoghi: </strong>il paesello, il palazzotto di don Rodrigo, alcuni paese del bergamasco.<br />
<strong>Tempo:</strong> fine ottobre 1630- autunno 1631 e oltre.</span><br />
<br />
<span style="font-size: large;">
</span><span style="font-size: large;">
La struttura di questo capitolo è lineare, i fatti si succedono
cronologicamente e portano a conclusione le vicende ancora in sospeso,
ma nel contempo il capitolo chiude a cerchio il romanzo. A determinare
la circolarità è, innanzitutto, la presenza determinante di don
Abbondio, come nel capitolo I, con il suo tono dimesso; le vicende dei
due umili protagonisti, narrate in genere nei primi capitoli con
registro colloquiale, si sono allargate sempre di </span><br />
<a name='more'></a><span style="font-size: large;">più alla Storia e alla
società con uno stile progressivamente più alto, fino a toccare i toni
tragici, per poi tornare alle loro vicende private con un tono
nuovamente più basso, quasi da commedia.</span><br />
<br />
<span style="font-size: large;">
</span>
<span style="font-size: large;"><strong>IL RITORNO DI LUCIA:</strong> fino alla fine Lucia è reticente,
così turbata dall’amore da chiudere tutte le vie che potrebbero
comunicarlo, ma non riesce a controllare il tono della voce. A Renzo,
che ha imparato il suo linguaggio, basta questo per capire
perfettamente: la reticenza di Lucia la porta a porre un nuovo schermo
protettivo tra sé e Renzo, deviando il discorso su fra Cristoforo, sotto
la cui tutela paterna pone loro due e il loro matrimonio.</span><br />
<br />
<span style="font-size: large;">
</span>
<span style="font-size: large;"><strong>RENZO DA DON ABBONDIO:</strong> se Lucia non ha cambiato
carattere, Renzo rivela invece di essere maturato. Al nuovo rifiuto di
don Abbondio di celebrare le nozze egli, che sente ormai una superiorità
morale nei confronti del curato, reagisce con ironia e cerca con calma
di convincerlo che don Rodrigo è morto. Don Abbondio invece è sempre lo
stesso: non dice di no, ma tentenna, prende tempo trovando scuse e
facendo insinuazioni.</span><br />
<br />
<span style="font-size: large;">
</span>
<span style="font-size: large;"><strong>LA NOTIZIA DELLA MORTE DI DON RODRIGO:</strong> all’annuncio
dell’arrivo del marchese, il curato sembra credere che il signore sia
lì, nella canonica, a disturbare la sua quiete, e scatta in piedi come
una molla. Renzo invece mostra di essere in grado di prendere decisioni
autonome e mature: ha cercato e trovato prove sicure della morte del
signorotto e la testimonianza oculare di una persona di cui il curato si
fida, il sagrestano. Solo quando è assolutamente sicuro, il curato si
lascia andare a un’esagerata esplosione di gioia per la morte di don
Rodrigo e, libero di lasciarsi andare ora, si esprime con espressioni
idiomatiche per cantare "una provvidenza svuotata di mistero e
subordinata all’interesse". Il linguaggio prima circospetto si scioglie
in abbondanti parole di vivacità popolare e idiomatica è la visione
della peste come una scopa.</span><br />
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<span style="font-size: large;"><strong>LA VISITA DEL MARCHESE A DON ABBONDIO: </strong>il personaggio
del marchese è costruito come un doppio speculare di don Rodrigo.
Nell’aspetto fisico e nell’atteggiamento, il marchese non più giovane, è
aperto, cortese, placido, mentre don Rodrigo era giovane e arrogante;
se don Rodrigo non era stato in grado di formare una famiglia e usava le
donne solo per il proprio piacere, il marchese ha avuto una famiglia,
la cui scomparsa gli infonde nell’espressione una mestizia rassegnata.
Il palazzotto di don Rodrigo ne denunciava la decadenza economica, il
marchese invece è molto ricco: il personaggio sembra così fornire la
soluzione al malgoverno della nobiltà, cioè la carità al posto
dell’arroganza e della prepotenza. La lingua di don Abbondio cambia
improvvisamente e diventa ossequiosa e servile quando parla con i
potenti e il latino, questa volta, è usato dal curato come linguaggio di
casta per avvicinarsi alla classe del marchese.</span><br />
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<span style="font-size: large;"><strong>IL MATRIMONIO: </strong>come nelle fiabe, si giunge al lieto
fine, anche se il vissero felici e contenti appare troppo facile
conclusione. Nel romanzo manzoniano la gioia non è mai totale e una
notizia di tristezza arriva sempre nei momenti felici. Il momento
culminante della gioia, poi, il matrimonio, è liquidato con un semplice i
due promessi...furono sposi, in cui di notevole c’è solo il gioco di
parole che la battuta stabilisce con il titolo del romanzo. Il
narratore, che non ama il romanzesco, preferisce concentrarsi sullo
stato d’animo dei due sposi al momento di salire al palazzotto, anche se
la loro salita non rappresenta un’ascesa dal basso verso l’alto, bensì
solo l’alterna fortuna, la caducità dell’esistenza. Proprio il palazzo
di don Rodrigo e la stipula del contratto di compravendita sono
l’occasione per raccontare, in poche parole e con ironia, la fine di uno
dei frequentatori del palazzo, Azzecca-garbugli. Anche per lui la
giustizia del narratore è senza pietà: è morto di peste ed è stato
sepolto tra cadaveri senza nome. Solo dell’innominato non si conosce la
sorte: nel Fermo e Lucia si diceva che moriva come padre Cristoforo,
prestando aiuto agli appestati e non è facile capire perché la notizia
sia stata tagliata dall’edizione definitiva. È dunque destinato a
restare nella mente del lettore in una sorta di isolamento rispetto al
resto dell’umanità, avvolto nel mistero.</span><br />
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<span style="font-size: large;"><strong>IL FINALE: </strong>il decalogo delle gran cose che ci aveva
imparato è l’occasione per Renzo di raccontare a suo modo la propria
storia e renderla edificante. Renzo è viaggiatore e narratore e le due
funzioni sono in relazione tra loro. Manzoni però non condivide la
fiducia del ragazzo che le disgrazie capitino solo a chi ha commesso
errori e che basti non commetterne per diventare padroni del proprio
destino. Come per chiudere a cerchio il romanzo, riallacciando la
conclusione all’introduzione, il narratore gioca con l’anonimo, il suo
doppio, e con il lettore: all’anonimo attribuisce la responsabilità
delle battute moraleggianti, quasi ad allontanare da sé il sospetto di
moralismo , e nel contempo per criticare anche le proprie scelte più
moralistiche.</span>Sylviehttp://www.blogger.com/profile/07460434530539105002noreply@blogger.com0