I personaggi minori e l'incipit del capitolo
Il capitolo inizia con un ridimensionamento nella realtà dei
sentimenti e delle speranze di Lucia. Abbiamo la scena del distacco fra
i Promessi. Già la barca che urta la riva dà molto concretamente
l'idea del distacco dai pensieri, del ritorno alla realtà. Anche la
nuda panca su cui i tre fuggitivi siedono serve a suggerire l'idea
della stanchezza, della solitudine, della durezza della nuova realtà a
cui i fuggitivi sono ormai crudamente esposti.
Questa generale nota di distacco è presente anche nei personaggi
minori che compaiono all'inizio del capitolo nella funzione di uomini
fidati del padre Cristoforo: il barcaiolo ritira un po' bruscamente la
mano in cui Renzo voleva far scivolare una qualche moneta, il
barocciaio dal canto suo si rivela un buon uomo sicuramente, ma troppo
infatuato del mito dei potenti, che hanno sempre ragione; e il padre
guardiano, amico di fra Cristoforo, si rivela in realtà un ben povero
aiuto, visto che penserà subito alla "Signora", la monca di Monza,
appunto, che a lui appare in tutto il suo mito di elezione e di
nobiltà, e di cui egli non ha in realtà capito nulla. Il padre
guardiano ha anche una certa mondanità, che dimostra facendo un
discorso non molto adeguato all'abito che porta intorno alla bellezza
fisica di Lucia. Il suo tentativo di rimediare a questa gaffe non è
molto felice. Anche il padre guardiano si rivela animato dallo spirito
di asservimento ai grandi del mondo. In generale, dunque, si può dire
che il Manzoni ottiene qui un ridimensionamento dei temi alti e sublimi
con cui si era chiusa la fase borghigiana del romanzo, e prepara in
questo modo la narrazione della fase successiva, tutta caratterizzata
dalla crudele realtà di un mondo in cui imperversano il male e la
violenza: un mondo su cui l'artista Manzoni rifletterà con grande
intensità e passione e con un impegno che non gli avevamo ancora
conosciuto.
La vicenda di Gertrude
Nella vicenda di Gertrude, che, asservita ad un amante, favorisce il
ratto di una povera fanciulla, che sarà da lui consegnata al suo
persecutore, salvo il colpo di scena finale per cui la fanciulla passerà
dal terrore alla salvezza, si notano tutti gli elementi di una
letteratura romanzesca d'avventura, a sfondo giallo, quale poteva essere
cara a certa letteratura d'appendice d'oltralpe. Temi facili, con cui
avvincere il lettore ed ottenere un grande successo.
Ma il Manzoni, inutile dirlo, avverte immediatamente il pericolo di
scadere nella volgarità: si sofferma sulla cautela con cui l'Anonimo
tace i nomi, scherza sui dotti che darebbero la vita per conoscerli.
Possiamo però poi immediatamente cogliere che in realtà l'interesse del
Manzoni in tutta questa vicenda è un altro: non soffermarsi sullo
scandalo che pure è ampiamente presente nella vita e nella figura di
Gertrude, nella vita reale Maria Anna de Leyva, figlia di Virginia
Marino e d'un nobile spagnolo (don Martino de Leyva, figlio di Antonio
de Leyva, che fu governatore del ducato di Milano, nominato duca
d'Ascoli da Francesco Sforza, e feudatario di Monza, titolo quest'ultimo
che gli confermò anche Carlo V°): ma riflettere invece su dolorose
vicende rigorosamente storiche, e prendere una netta posizione contro
certe istituzioni, che usate in modo distorto, al solo scopo di servire
la vuota superbia di un casato e di un nome, possono causare dolore e
sofferenza e rovina. E' appunto il caso del maggiorascato e della
monacazione forzata, sua diretta conseguenza. Qui il Manzoni ci rivela
il suo sdegno per queste usanze, che, sradicate dal loro contesto
storico, e perpetuate senza più alcuna giustificazione, si rivelano
usanze barbariche e sostanzialmente anticristiane. Non è giusto metter
al mondo figli per poi negare loro la libera affermazione nella vita, a
vantaggio di un solo, che è destinato ad ereditare tutto il patrimonio.
Non è possibile imporre una vita di sacrificio e di rinuncia, adatta a
spiriti elevati e propensi alla santità, a uomini o donne normali,
incapaci di qualunque grandezza, e chiamati dalla natura a vivere una
vita normale.
In questa sdegnata polemica contro certi ordini religiosi potrebbe
sembrare che il Manzoni voglia assumere posizioni laiche ed
anticlericali. In realtà non è affatto così. Il suo dito si alza
implacabile a condannare non già il clero, ma quei potenti laici, quei
nobili, che, attraverso l'usanza di mandare in convento figli cadetti,
si servivano indegnamente del clero come di un mero strumento al loro
potere. E davano alla Chiesa non già anime disposte a servirla, ma
uomini e donne asserviti a ogni passione della terra, e soprattutto
intrisi di orgoglio, che è la prima negazione delle virtù cristiane. La
Chiesa era così asservita, anche se all'apparenza sembrava un
privilegio che i figli dei nobili entrassero a farne parte. Ancora una
volta, la causa prima di ogni male di questo Seicento pare al Manzoni
la distorta concezione dell'onore, quel puntiglio e quel falso orgoglio
che spingono i singoli ad agire in modo biecamente esteriore, senza
curarsi della sostanza umana ed etica delle loro azioni. Anche alla
base della "scommessa" di don Rodrigo c'è il punto d'onore: ma ora, nel
caso di Gertrude, vediamo come questo male possa risultare ancora più
devastante.
Il principe padre
Personaggio cupamente monocorde, totalmente animato dall'orgoglio della
casata, incapace di qualunque sentimento ispirato ad un'autentica
umanità, "assoluto" nel portare a termine il proprio criminale disegno
di sacrificare la figlia, piegato egli stesso nella servitù al mito del
suo potere, schiavo di esso più di quanto gli altri mostrino di
riverirlo e servirlo. Della vita non coglie nessun elemento positivo,
piacevole, e vive come un gretto miserabile burocrate, ministro della
sua dignità. Figura spietata, proprio perché totalmente priva di una
qualunque luce, di qualunque dubbio. Egli è affiancato dalla moglie e
dal principino primogenito, che assecondano il suo disegno senza altra
motivazione che quella di un volgare interesse personale. Altrettanto
asservito il coro dei servi, tutti obbligati ad ossequiare la volontà
del padrone. Questa situazione cupa e terribile, solo apparentemente
sfarzosa, di totale asservimento (e il principale - ricordiamolo - è
quello del Principe padre verso se stesso), è poi simmetricamente
presente anche nel convento, con la madre badessa, le monche
faccendiere, le quali si prestano senza minima esitazione a questa
terribile ingiustizia, di accogliere dentro il convento contro la sua
volontà la giovane Gertrude. In realtà tutte sono superficiali, incapaci
di un'autentica coscienza, che avrebbe loro consentito di percepire il
delitto tremendo di questa coartazione.
Gertrude
Se tragica è la figura del Principe padre, la cui vita è oppressa da un
destino che lo porta alla sopraffazione ed alla violenza, la tragedia
di un destino che porta al dolore dello spirito e alla condanna
dell'insoddisfazione perenne è tutta quanta presente in
Gertrude.
Ella ha ereditato dal padre tutti i suoi stessi difetti: è orgogliosa,
superba, smaniosa di primeggiare e di trarre i massimi piaceri dalla
vita, capace di dissimulare. Due esseri legati nel sangue e
nell'istinto, ma divisi da interessi opposti: e soccombe, ovviamente,
quello più debole, cioè Gertrude stessa. La quale dunque suscita
nell'animo del lettore (e del narratore) un'intensa pietà, che è tanto
più forte quanto più pronunciata è la reazione morale di abominio ed
orrore che finiamo col provare, insieme al narratore, per il Principe
padre (tanto che "non ci regge il cuore a
chiamarlo padre"). La pietà per la sofferenza di
un destino avverso è la vena che percorre queste pagine, splendide, del
romanzo. La poesia di Gertrude è tutta racchiusa in questa pietà. Ma
provare pietà, una dovuta pietà, per lei, non significa mandarla
assolta dalle sue colpe, che in sede morale ci sono, e sono anche
gravi. Gertrude infatti arriva al delitto, il sommo dei crimini, per un
percorso fatto di finzioni ed ipocrisie di ogni genere. Chissà quante
altre, nella sua condizione, avranno trovato il modo di farsi una
ragione, e di moderare la loro insoddisfazione, senza lasciarla
degenerare nella lussuria o nell'assassinio. Tuttavia, va ben
specificato, onde evitare fraintendimenti, che qui al Manzoni non
interessa il giudizio morale definitivo su Gertrude. Considerando
infatti la vicenda storica, che si concluse con un'espiazione durata
più di dieci anni, ed il fatto che anche l'Innominato è redento dopo
una vita trascorsa nel delitto, ci si potrebbe anche chiedere perché il
Manzoni non ci abbia voluto descrivere la redenzione e la salvezza
dell'anima di Gertrude. Ma al Manzoni interessa soprattutto suscitare
la pietà nel lettore, e, specularmente, il disgusto contro certi modi
educativi e certe istituzioni che pretendono di prendere a norma la
coartazione di un'anima, il soffocamento del libero sviluppo di una
personalità umana. E' precisamente qui che la valenza "educativa" del
romanzo tocca uno dei suoi momenti più alti e più straordinari.
Già
nella descrizione di Gertrude abbiamo la sensazione che il Manzoni
cerchi i modi narrativi specifici per questo superbo romanzo nel
romanzo. I sottili, quasi impercettibili tratti di scompostezza presenti
in Gertrude, che vengono a turbare un ritratto solo in apparenza
ispirato a criteri di bellezza classica, cioè fondata sull'armonia e
sulla regolarità, costituiscono un primo importante segnale del dramma
che si agita anche nell'anima della protagonista. Questa pagina è
un'altra prova superba dell'arte manzoniana, che ci fornisce qui un vero
ritratto romantico, ove la bellezza è appunto nell'inquietudine e
nell'irregolarità che emergono dal viso di Gertrude.
Nessun commento:
Posta un commento