Testo Completo
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il
cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e
ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di
quest'arrivo ne' paesi d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a veder
quell'uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la
gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor
più pensieroso. "Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere
un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo diavolo che lo tormenti.
Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio;
nessuno avrà passata una
notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta gente allegra?
Qualche soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro non vanno
tutti per l'elemosina. Ebbene, qualche segno nell'aria, qualche
parola... Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se...!
Perché non vado anch'io? Perché no?... Anderò, anderò; e gli voglio
parlare: a quattr'occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene,
quello che, quello che... Sentirò cosa sa dir lui, quest'uomo!"
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi,
mettendosi una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del
militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura
da una parte; dall'altra, un'altra che staccò da un chiodo della parete;
mise in quella stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla
parete una carabina famosa quasi al par di lui, se la mise ad armacollo;
prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove
aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino
all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia
scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data
un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e
quieta.
- Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata?
- Io ho fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire...
- Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si
sveglierà... Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a
prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si
sveglierà... dille che io... che il padrone è partito per poco tempo,
che tornerà, e che... farà tutto quello che lei vorrà.
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: "che sia qualche principessa costei?"
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far
anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché
nessun altro che quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì
dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era
il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non
doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de'
valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si
potrebbe argomentare; giacché nelle memorie di quel tempo troviamo che
da venti e più miglia veniva gente in folla, per veder Federigo.
I bravi che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente
al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se
volesse prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si
pensare della sua aria, e dell'occhiate che dava in risposta a' loro
inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i
passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva
luogo, prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e
levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una
gran folla; ma il suo nome passò subito di bocca in bocca; e la folla
s'apriva. S'accostò a uno, e gli domandò dove fosse il cardinale. - In
casa del curato, - rispose quello, inchinandosi, e gl'indicò dov'era. Il
signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti preti, che
tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa. Vide
dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti
altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l'appoggiò in un
canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate,
bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli,
gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
- Io son forestiero, - rispose l'interrogato, e data un'occhiata
intorno, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino,
stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: - colui? quel
famoso? che ha a far qui colui? alla larga! - Però, a quella chiamata
che risonò nel silenzio generale, dovette venire l'innominato, stette a
sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi
su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un poco, poi disse o
balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo... in questo
momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere -. E andò a
malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il
cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non
fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo
camminare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po'
di tempo all'ombra d'un bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte
d'acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria
del quale, affacciandosi, in qualunque tempo alla mente, la ricreano
con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di
simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la
contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a
questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro
parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare
avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque
tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una
grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un
intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua vita
è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza
ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni,
va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla
puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime
intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla
vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori,
vengono trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare
insegnamento della religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle
massime, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non
potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure
si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e
talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell'azioni e
de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già
destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per
tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero
ecclesiastico, e ne prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo,
che una fama, già fin d'allora antica e universale, predicava santo.
Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta
ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle
occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e
furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del
popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl'infermi. Si
valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare
i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e
profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue
doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche
stato l'infimo per condizione. I vantaggi d'un altro genere, che la sua
gli avrebbe potuto procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni
studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò
un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo,
tutto il tenore della vita e il contegno. Ne credette mai di doverlo
mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che
avvilisse così la dignità della casa. Un'altra guerra ebbe a sostenere
con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cercavano
di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più
signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare
come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere
con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce
e si ricrea nello splendore altrui; o fossero di que' prudenti che
s'adombrano delle virtù come de' vizi, predicano sempre che la
perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto
dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi
vincere da que' tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la
pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni,
davanti a quella presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la
santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato
bisogno, avrebbe aggiunto autorità ogni momento l'ossequio manifesto e
spontaneo de' circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo
e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d'un tal
superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto
notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che
a Federigo, allor di vent'anni, fosse mancata una guida e un censore.
La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà,
la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale potente, il credito
della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa
nelle menti un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e
tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche,
concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che
nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci
esser giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro
servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente
perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite furono spese in
questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace
di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595,
proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente
turbato, e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del
papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e
l'ipocrisia non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle,
che la buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan
forse per questo d'esser l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso
e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole
ch'esprimono quel sentimento, fossero anche passate sulle labbra di
tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo, saranno sempre
belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di
sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di
non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se
stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva,
come tutti dicono, che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de'
poveri: come poi intendesse infatti una tal massima, si veda da questo.
Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e
quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si
chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo sempre dello stesso
peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne
contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non
credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio.
Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava
di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo
però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della
semplicità quello d'una squisita pulizia: due abitudini notabili
infatti, in quell'età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si
disperdesse degli avanzi della sua mensa frugale, gli assegnò a un
ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno
nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che
potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera, angustiosa,
d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se
non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con
sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per
fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già
raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de' più
colti ed esperti che poté avere, a farne incetta, per l'Italia, per la
Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia,
al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa trentamila
volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un
collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse;
dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a
due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia,
lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad
ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un
collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca,
latina e italiana; un collegio d'alunni, che venissero istruiti in
quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v'unì una stamperia
di lingue orientali, dell'ebraica cioè, della caldea, dell'arabica,
della persiana, dell'armena; una galleria di quadri, una di statue, e,
una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté
trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da
fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo più
difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora
molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de' tipi, gli
uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i
giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che
giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel
tempo: giudizio conforme a quello che par che n'abbia portato la
posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole
che stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede un
intento d'utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti
sapiente e gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini comuni di
quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli
uomini più dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle
scienze, e avviso de' libri migliori che venissero fuori in ogni genere,
e farne acquisto; gli prescrisse d'indicare agli studiosi i libri che
non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti,
fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene,
secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno
troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d'una biblioteca:
allora non era così. E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col
costrutto e con l'eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che
vi fu bibliotecario dopo la morte di Federigo, vien notato
espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un
privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti alla vista
del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e
carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero
bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d'Italia,
i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si
levavano se non per gentilezza de' bibliotecari, quando si sentivano di
farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare,
non se n'aveva neppur l'idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era
un sottrar libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce
n'era e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del
Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi,
al modo che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente;
cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente,
sarebbe cosa di molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma
pensate che generoso, che giudizioso, che benevolo, che perseverante
amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui che volle una tal
cosa, la volle in quella maniera, e l'eseguì, in mezzo a
quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia generale per
ogni applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa? e c'era altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava anche questa,
e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da
lui in quell'impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de'
suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer
che non ci sia bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso
immediato de' bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano
che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la
migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina
propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto,
i suoi fatti furon consentanei all'opinione. La sua vita fu un continuo
profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha
già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire
alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia
saputo mettere anche in questa liberalità. De' molti esempi singolari
che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui
un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far
monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece
venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella
vessazione era il non avere quattromila scudi che, secondo lui,
sarebbero stati necessari a maritar la figlia convenevolmente, Federigo
la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza
eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci
d'un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio impiegati
in cent'altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se non
che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d'una virtù
così libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così
indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella
che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse
fatta monaca.
La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in
tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere
specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso
gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel
mondo. E qui pure ebbe a combattere co' galantuomini del ne quid nimis,
i quali, in ogni cosa, avrebbero voluto farlo star ne' limiti, cioè ne'
loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d'un paese
alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra
l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando,
l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que' ragazzi,
perché eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon uomo,
che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o
non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino.
Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini
costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli
avvisi de' loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli
del loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento,
rispose: - sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e
non volete che gli abbracci?
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de'
suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a
una felicità straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una
disciplina costante sopra un'indole viva e risentita. Se qualche volta
si mostrò severo, anzi brusco, fu co' pastori suoi subordinati che
scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o d'altre tacce specialmente
opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che
potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non dava
mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore, né d'agitazione:
mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se
vi si destavano. Non solo da' molti conclavi ai quali assistette,
riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così
desiderabile all'ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta
che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e
quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano),
Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il
pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest'avversione
al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni più comuni della
vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che
fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli affari
altrui; anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato:
discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori
del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti
notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso
singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi
insieme. Però non ometteremo di notare un'altra singolarità di quella
bella vita: che, piena come fu d'attività, di governo, di funzioni,
d'insegnamento, d'udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti,
non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce n'ebbe tanta, che per un
letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant'altri e
diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi
contemporanei, quello d'uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e
sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi
parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a
coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse
difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta,
ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe
cose, e quando risulti dall'esame particolare de' fatti, può aver
qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca,
come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non
volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar
troppo un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere
accennato così alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in
complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché
non paia che abbiam voluto scrivere un'orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che
qualcheduno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio
quest'uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n'ha lasciati! Circa
cento son l'opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e
italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca
da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia,
d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e d'altro. "E come
mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o almeno così
poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno, con
tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto
meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto
candor d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande
scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di
quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e
conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme,
non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama
letteraria presso noi posteri?"
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto
interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con
l'osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla
spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse:
e poi se non v'andassero a genio? se vi facessero arricciare il naso?
Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della storia, e che, in vece
di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo in
azione, con la guida del nostro autore.
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