Luoghi: il paesello, il palazzotto di don Rodrigo, alcuni paese del bergamasco.
Tempo: fine ottobre 1630- autunno 1631 e oltre.
La struttura di questo capitolo è lineare, i fatti si succedono
cronologicamente e portano a conclusione le vicende ancora in sospeso,
ma nel contempo il capitolo chiude a cerchio il romanzo. A determinare
la circolarità è, innanzitutto, la presenza determinante di don
Abbondio, come nel capitolo I, con il suo tono dimesso; le vicende dei
due umili protagonisti, narrate in genere nei primi capitoli con
registro colloquiale, si sono allargate sempre di
più alla Storia e alla
società con uno stile progressivamente più alto, fino a toccare i toni
tragici, per poi tornare alle loro vicende private con un tono
nuovamente più basso, quasi da commedia.
IL RITORNO DI LUCIA: fino alla fine Lucia è reticente,
così turbata dall’amore da chiudere tutte le vie che potrebbero
comunicarlo, ma non riesce a controllare il tono della voce. A Renzo,
che ha imparato il suo linguaggio, basta questo per capire
perfettamente: la reticenza di Lucia la porta a porre un nuovo schermo
protettivo tra sé e Renzo, deviando il discorso su fra Cristoforo, sotto
la cui tutela paterna pone loro due e il loro matrimonio.
RENZO DA DON ABBONDIO: se Lucia non ha cambiato
carattere, Renzo rivela invece di essere maturato. Al nuovo rifiuto di
don Abbondio di celebrare le nozze egli, che sente ormai una superiorità
morale nei confronti del curato, reagisce con ironia e cerca con calma
di convincerlo che don Rodrigo è morto. Don Abbondio invece è sempre lo
stesso: non dice di no, ma tentenna, prende tempo trovando scuse e
facendo insinuazioni.
LA NOTIZIA DELLA MORTE DI DON RODRIGO: all’annuncio
dell’arrivo del marchese, il curato sembra credere che il signore sia
lì, nella canonica, a disturbare la sua quiete, e scatta in piedi come
una molla. Renzo invece mostra di essere in grado di prendere decisioni
autonome e mature: ha cercato e trovato prove sicure della morte del
signorotto e la testimonianza oculare di una persona di cui il curato si
fida, il sagrestano. Solo quando è assolutamente sicuro, il curato si
lascia andare a un’esagerata esplosione di gioia per la morte di don
Rodrigo e, libero di lasciarsi andare ora, si esprime con espressioni
idiomatiche per cantare "una provvidenza svuotata di mistero e
subordinata all’interesse". Il linguaggio prima circospetto si scioglie
in abbondanti parole di vivacità popolare e idiomatica è la visione
della peste come una scopa.
LA VISITA DEL MARCHESE A DON ABBONDIO: il personaggio
del marchese è costruito come un doppio speculare di don Rodrigo.
Nell’aspetto fisico e nell’atteggiamento, il marchese non più giovane, è
aperto, cortese, placido, mentre don Rodrigo era giovane e arrogante;
se don Rodrigo non era stato in grado di formare una famiglia e usava le
donne solo per il proprio piacere, il marchese ha avuto una famiglia,
la cui scomparsa gli infonde nell’espressione una mestizia rassegnata.
Il palazzotto di don Rodrigo ne denunciava la decadenza economica, il
marchese invece è molto ricco: il personaggio sembra così fornire la
soluzione al malgoverno della nobiltà, cioè la carità al posto
dell’arroganza e della prepotenza. La lingua di don Abbondio cambia
improvvisamente e diventa ossequiosa e servile quando parla con i
potenti e il latino, questa volta, è usato dal curato come linguaggio di
casta per avvicinarsi alla classe del marchese.
IL MATRIMONIO: come nelle fiabe, si giunge al lieto
fine, anche se il vissero felici e contenti appare troppo facile
conclusione. Nel romanzo manzoniano la gioia non è mai totale e una
notizia di tristezza arriva sempre nei momenti felici. Il momento
culminante della gioia, poi, il matrimonio, è liquidato con un semplice i
due promessi...furono sposi, in cui di notevole c’è solo il gioco di
parole che la battuta stabilisce con il titolo del romanzo. Il
narratore, che non ama il romanzesco, preferisce concentrarsi sullo
stato d’animo dei due sposi al momento di salire al palazzotto, anche se
la loro salita non rappresenta un’ascesa dal basso verso l’alto, bensì
solo l’alterna fortuna, la caducità dell’esistenza. Proprio il palazzo
di don Rodrigo e la stipula del contratto di compravendita sono
l’occasione per raccontare, in poche parole e con ironia, la fine di uno
dei frequentatori del palazzo, Azzecca-garbugli. Anche per lui la
giustizia del narratore è senza pietà: è morto di peste ed è stato
sepolto tra cadaveri senza nome. Solo dell’innominato non si conosce la
sorte: nel Fermo e Lucia si diceva che moriva come padre Cristoforo,
prestando aiuto agli appestati e non è facile capire perché la notizia
sia stata tagliata dall’edizione definitiva. È dunque destinato a
restare nella mente del lettore in una sorta di isolamento rispetto al
resto dell’umanità, avvolto nel mistero.
IL FINALE: il decalogo delle gran cose che ci aveva
imparato è l’occasione per Renzo di raccontare a suo modo la propria
storia e renderla edificante. Renzo è viaggiatore e narratore e le due
funzioni sono in relazione tra loro. Manzoni però non condivide la
fiducia del ragazzo che le disgrazie capitino solo a chi ha commesso
errori e che basti non commetterne per diventare padroni del proprio
destino. Come per chiudere a cerchio il romanzo, riallacciando la
conclusione all’introduzione, il narratore gioca con l’anonimo, il suo
doppio, e con il lettore: all’anonimo attribuisce la responsabilità
delle battute moraleggianti, quasi ad allontanare da sé il sospetto di
moralismo , e nel contempo per criticare anche le proprie scelte più
moralistiche.
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