Capitolo XXXVIII - Analisi e Commento

Luoghi: il paesello, il palazzotto di don Rodrigo, alcuni paese del bergamasco.
Tempo: fine ottobre 1630- autunno 1631 e oltre.


La struttura di questo capitolo è lineare, i fatti si succedono cronologicamente e portano a conclusione le vicende ancora in sospeso, ma nel contempo il capitolo chiude a cerchio il romanzo. A determinare la circolarità è, innanzitutto, la presenza determinante di don Abbondio, come nel capitolo I, con il suo tono dimesso; le vicende dei due umili protagonisti, narrate in genere nei primi capitoli con registro colloquiale, si sono allargate sempre di
più alla Storia e alla società con uno stile progressivamente più alto, fino a toccare i toni tragici, per poi tornare alle loro vicende private con un tono nuovamente più basso, quasi da commedia.

IL RITORNO DI LUCIA: fino alla fine Lucia è reticente, così turbata dall’amore da chiudere tutte le vie che potrebbero comunicarlo, ma non riesce a controllare il tono della voce. A Renzo, che ha imparato il suo linguaggio, basta questo per capire perfettamente: la reticenza di Lucia la porta a porre un nuovo schermo protettivo tra sé e Renzo, deviando il discorso su fra Cristoforo, sotto la cui tutela paterna pone loro due e il loro matrimonio.

RENZO DA DON ABBONDIO: se Lucia non ha cambiato carattere, Renzo rivela invece di essere maturato. Al nuovo rifiuto di don Abbondio di celebrare le nozze egli, che sente ormai una superiorità morale nei confronti del curato, reagisce con ironia e cerca con calma di convincerlo che don Rodrigo è morto. Don Abbondio invece è sempre lo stesso: non dice di no, ma tentenna, prende tempo trovando scuse e facendo insinuazioni.

LA NOTIZIA DELLA MORTE DI DON RODRIGO: all’annuncio dell’arrivo del marchese, il curato sembra credere che il signore sia lì, nella canonica, a disturbare la sua quiete, e scatta in piedi come una molla. Renzo invece mostra di essere in grado di prendere decisioni autonome e mature: ha cercato e trovato prove sicure della morte del signorotto e la testimonianza oculare di una persona di cui il curato si fida, il sagrestano. Solo quando è assolutamente sicuro, il curato si lascia andare a un’esagerata esplosione di gioia per la morte di don Rodrigo e, libero di lasciarsi andare ora, si esprime con espressioni idiomatiche per cantare "una provvidenza svuotata di mistero e subordinata all’interesse". Il linguaggio prima circospetto si scioglie in abbondanti parole di vivacità popolare e idiomatica è la visione della peste come una scopa.

LA VISITA DEL MARCHESE A DON ABBONDIO: il personaggio del marchese è costruito come un doppio speculare di don Rodrigo. Nell’aspetto fisico e nell’atteggiamento, il marchese non più giovane, è aperto, cortese, placido, mentre don Rodrigo era giovane e arrogante; se don Rodrigo non era stato in grado di formare una famiglia e usava le donne solo per il proprio piacere, il marchese ha avuto una famiglia, la cui scomparsa gli infonde nell’espressione una mestizia rassegnata.  Il palazzotto di don Rodrigo ne denunciava la decadenza economica, il marchese invece è molto ricco: il personaggio sembra così fornire la soluzione al malgoverno della nobiltà, cioè la carità al posto dell’arroganza e della prepotenza. La lingua di don Abbondio cambia improvvisamente e diventa ossequiosa e servile quando parla con i potenti e il latino, questa volta, è usato dal curato come linguaggio di casta per avvicinarsi alla classe del marchese.

IL MATRIMONIO: come nelle fiabe, si giunge al lieto fine, anche se il vissero felici e contenti appare troppo facile conclusione. Nel romanzo manzoniano la gioia non è mai totale e una notizia di tristezza arriva sempre nei momenti felici. Il momento culminante della gioia, poi, il matrimonio, è liquidato con un semplice i due promessi...furono sposi, in cui di notevole c’è solo il gioco di parole che la battuta stabilisce con il titolo del romanzo. Il narratore, che non ama il romanzesco, preferisce concentrarsi sullo stato d’animo dei due sposi al momento di salire al palazzotto, anche se la loro salita non rappresenta un’ascesa dal basso verso l’alto, bensì solo l’alterna fortuna, la caducità dell’esistenza. Proprio il palazzo di don Rodrigo e la stipula del contratto di compravendita sono l’occasione per raccontare, in poche parole e con ironia, la fine di uno dei frequentatori del palazzo, Azzecca-garbugli. Anche per lui la giustizia del narratore è senza pietà: è morto di peste ed è stato sepolto tra cadaveri senza nome. Solo dell’innominato non si conosce la sorte: nel Fermo e Lucia si diceva che moriva come padre Cristoforo, prestando aiuto agli appestati e non è facile capire perché la notizia sia stata tagliata dall’edizione definitiva. È dunque destinato a restare nella mente del lettore in una sorta di isolamento rispetto al resto dell’umanità, avvolto nel mistero.

IL FINALE: il decalogo delle gran cose che ci aveva imparato è l’occasione per Renzo di raccontare a suo modo la propria storia e renderla edificante. Renzo è viaggiatore e narratore e le due funzioni sono in relazione tra loro. Manzoni però non condivide la fiducia del ragazzo che le disgrazie capitino solo a chi ha commesso errori e che basti non commetterne per diventare padroni del proprio destino. Come per chiudere a cerchio il romanzo, riallacciando la conclusione all’introduzione, il narratore gioca con l’anonimo, il suo doppio, e con il lettore: all’anonimo attribuisce la responsabilità delle battute moraleggianti, quasi ad allontanare da sé il sospetto di moralismo , e nel contempo per criticare anche le proprie scelte più moralistiche.

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