Nonostante che la maggior parte delle persone cerchi asilo e protezione
nel castello, salendo dalla parte opposta a quello di don Abbondio,
questi, vedendo che altri compagni di sventura si avviano verso il
castello dalla sua parte, incomincia a borbottare, perché pensa che
tanta gente attiri i soldati, che " crederanno che lassù ci siano
tesori". Né serve sapere a don Abbondio che il castello è fortificato,
in quanto, dice lui, è proprio il mestiere dei soldati espugnare le
fortezze. Insomma, costui, egoista ed inumano, noncurante dei mali
altrui, vorrebbe il castello solo per sé.
Giunto alla Malanotte con Perpetua e Agnese, nel vedere un
picchetto
d’armati, ripete tra sé: " son proprio venuto in un accampamento". Qui i
tre scendono dal baroccio e s’incamminano per la salita. Agnese alla
vista di quei luoghi selvaggi prova una infinita tenerezza per la
figlia, passata proprio per questa strada.
Mentre don Abbondio con la solita paura addosso raccomanda alle due
donne di essere prudenti e " di non dire cose che posson dispiacere,
specialmente a chi non è avvezzo a sentirne", vedendo avvicinare
l’innominato, si toglie il cappello e fa un profondo inchino. L’incontro
tra costui e i tre è commovente. L’innominato è felice di poterli
ospitare; chieste ad Agnese notizie di Lucia, sistema i fuggitivi nel
modo migliore.
Durante la loro permanenza al castello (ventitré o ventiquattro giorni),
non accade nulla di particolare, anche se bisogna stare all’erta tutti i
giorni, per l’avvicinarsi dei lanzichenecchi nei dintorni. Informato
che un paesetto stava per essere saccheggiato, l’innominato raccoglie i
suoi uomini e all’improvviso va addosso a quei ribaldi saccheggiatori,
che precipitosamente fuggono, sparpagliandosi. L’innominato li insegue
per un buon tratto; poi con i suoi uomini ritorna, e, passando per il
paese liberato, riceve " applausi e benedizioni".
Intanto Agnese e Perpetua, donne operose e grate per l’ospitalità
ricevuta, " per non mangiare il pane a ufo, " si rendono utili per buona
parte della giornata con il loro lavoro. Don Abbondio, invece, pur
potendo essere, come sacerdote, in quelle circostanze il pilastro
morale, sta sempre rinchiuso nel castello, e se qualche rara volta vi
esce, si allontana " quanto un tiro di schioppo" e, preso tutto dalla
paura, unica sua preoccupazione è di trovare " un nascondiglio in caso
di un serra serra". Al castello frequenta poche persone e conversa
preferibilmente con le due donne. A tavola limita la sua presenza al
minimo e parla pochissimo.
Finalmente l’esercito nemico, apportatore di saccheggi e vandalismi, si
allontana, e così ognuno può tornare alla propria casa. L’ultimo a
partire è naturalmente don Abbondio, che teme ancora di incontrare
soldati rimasti indietro.
Il giorno della partenza l’innominato fa trovare alla Malanotte una
carrozza con un corredo di biancheria per Agnese, a cui consegna anche "
un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa".
La esorta anche di ringraziare Lucia da parte sua, in quanto, aggiunge: "
già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male".
Dopo che don Abbondio e Perpetua ringraziano l’innominato
svisceratamente, la carrozza si muove, e i tre, di concerto,
stabiliscono di fare " una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere,
nella casa del sarto", dove apprendono notizie intorno alle ruberie dei
lanzichenecchi, anche se non s’eran visti in quel paese.
Proseguendo il viaggio, sotto i loro occhi si presenta un vero flagello:
vigne scompigliate, come colpite da una tempesta di grandine; pali
staccati, cancelli portati via; nei paesi, poi, usci sfondati, imposte
fracassate, mucchi di cenci seminati per le strade; tutti segni
premonitori, questi, di ciò che troveranno a casa loro.
Il danno patito da Agnese non è di grande entità, e può ripararlo con
una piccola parte di denaro offerto dall’innominato. Invece i danni
nella casa di don Abbondio sono veramente disastrosi: non c’è nulla di
sano, " ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato". Si vedono sparsi
per la casa brandelli di biancheria, cocci di pentole e di piatti; il
focolare è un ammasso di tizzoni spenti, residuo di sedie, tavolo,
armadio, panca di letto, doghe di botte. Il resto è cenere e carbone,
col quale i saccheggiatori hanno scarabocchiato i muri con figuracce
orribili. Ma lo sbigottimento, la rabbia e i litigi di Perpetua e don
Abbondio, raggiungono l’incredibile, quando si avvedono che il denaro
nascosto sotto il fico non c’e più. Per loro fortuna, a rendere meno
doloroso il disastro, c’è Agnese col suo denaro.
Ma i litigi tra Perpetua e don Abbondio hanno un’appendice. Costei,
venuta a conoscenza che alcune masserizie non sono state predate dai
soldati, ma si trovano in casa di persone del paese, mette in croce il
suo padrone per farsele restituire; però don Abbondio, a cui preme
tenere buoni quei birboni, replica che non ne vuole sapere; " quel che è
andato a andato". Ma Perpetua, inflessibile e puntigliosa, cerca sempre
il pretesto per ricominciare, e non esita a spifferare al suo padrone
che si " lascerebbe cavar gli occhi di testa", pur di non incomodarsi.
Tuttavia le traversie di don Abbondio sono poca cosa in confronti all’immane flagello che si abbatte su tanti infelici!
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