È lo zio di don Rodrigo e Attilio,
membro del Consiglio Segreto del governo milanese e influente uomo
politico: viene descritto come personaggio tronfio e vanaglorioso, abile
nell'arte sottile di simulare e dissimulare e capace all'occorrenza di
minacciare e lunsingare pur di ottenere i suoi scopi (rappresenta il
potere politico esecrato dall'autore, in quanto fondato su menzogna e
finzione come nel caso del gran cancelliere Ferrer, col quale il conte zio ha più di un'attinenza). È nominato per la prima volta nel cap. XI, quando il conte Attilio manifesta il proposito di rivolgersi a lui per indurlo a fare allontanare padre Cristoforo dal suo convento e impedirgli così di intralciare i piani di don Rodrigo; compare direttamente nel cap. XVIII, allorché il nipote Attilio si reca da lui a Milano
per parlargli del frate e ottenere il suo aiuto nella faccenda. Attilio
è assai abile a solleticare lo zio nella sua vanità di uomo politico,
ricordandogli più volte il peso degli affari di Stato (l'altro sbuffa
con gesto plateale, per sottolineare le incombenze cui deve far fronte),
quindi gli fornisce una versione addomesticata del contrasto fra
Rodrigo e padre Cristoforo, insinuando la volgare calunnia che il frate
sia invaghito di Lucia e volesse farla sposare con Renzo,
sua creatura e cattivo soggetto in quanto ricercato dalla legge, mentre
Rodrigo si sarebbe messo di traverso a causa di un'innocente passione
per la ragazza. Il conte zio crede ad Attilio e si mostra assai irritato
del fatto che il frate "temerario" si sia messo contro suo nipote,
dunque accetta di intervenire per proteggere l'onore del casato, di cui
Attilio affetta di preoccuparsi (egli è abile a far credere allo zio che
Rodrigo voglia vendicarsi del frate, argomento decisivo nell'indurre
l'uomo a prendere a cuore la questione). Reagisce con una certa stizza
quanto Attilio gli consiglia di fare pressioni sul padre provinciale
dei cappuccini, anche se è chiaro che seguirà il suggerimento, quindi
congeda il nipote con la consueta formula "e abbiamo giudizio".
Nel cap. XIX il conte zio invita a pranzo il padre
provinciale e lo fa sedere a una tavola insieme a commensali molto
altolocati, parlando poi appositamente dello splendore della corte di
Madrid dove lui è di casa. In seguito si apparta col prelato in un'altra
stanza e inizia a parlargli di padre Cristoforo, accusandolo di essere
un frate inquieto, di proteggere il famoso ricercato Lorenzo Tramaglino,
di avere un passato turbolento e sospetto; parla dei contrasti sorti
tra lui e il nipote don Rodrigo, arrivando a insinuare che il frate
abbia dei comportamenti non adatti al suo abito e suggerendo di
allontanarlo da Pescarenico
per evitare problemi, onde evitare conseguenze che potrebbero
coinvolgere conoscenze altolocate della famiglia. Il padre provinciale
obietta che ciò sembrerebbe una punizione, ma il conte zio ribatte che
la cosa sanerà la situazione prima che possa degenerare, convincendo
infine il prelato il quale, osserva, potrebbe mandare Cristoforo a
Rimini, dove è appunto richiesto un predicatore. Il conte zio promette
che la cosa resterà fra di loro e Rodrigo non ne saprà nulla, quindi non
solo non se ne potrà vantare come di una vittoria personale, ma sarà
pronto a compiere un gesto di palese amicizia verso l'ordine dei
cappuccini, verso cui ha peraltro molto rispetto. Alla fine del
colloquio i due uomini si riuniscono agli altri ospiti, non prima però
che il nobile ceda cavallerescamente il passo al padre cappuccino.
La sua morte durante l'epidemia di peste viene ricordata nel cap. XXXV, come una delle condizioni che hanno permesso a padre Cristoforo di andare da Rimini al lazzaretto di Milano per accudire gli ammalati.
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