È il nobiluomo milanese che accoglie nella propria casa Lucia dopo la sua liberazione dal castello dell'innominato, in seguito alla conversione del bandito dopo il suo incontro col cardinal Borromeo: è introdotto nel cap. XXV, col dire che la moglie donna Prassede
lo incarica di scrivere una lettera al cardinale per informarlo della
decisione di ospitare la ragazza, compito che l'aristocratico svolge con
la consueta maestria (egli è descritto fin dall'inizio come un uomo
dotto e letterato, infatti nella lettera egli inserisce molti "fiori",
ovvero sottigliezze retoriche da cui il Borromeo dovrà ricavare "il
sugo"). Il casato del personaggio non viene nominato e tale omissione è
come al solito imputata alla reticenza dell'anonimo, anche se il
cardinale approva la decisione di mandare Lucia nella sua casa dove, è
certo, sarà al sicuro dalle insidie di don Rodrigo,
benché il prelato conosca donna Prassede per essere una persona non
proprio adatta all'ufficio di proteggere la ragazza, per via del suo
eccessivo zelo nei confronti del prossimo. Don Ferrante viene poi
descritto nel cap. XXVII
come un uomo che passa per essere molto dotto, anche se attraverso di
lui l'autore svolge una sottile quanto corrosiva critica della cultura
del Seicento, frivola e priva di profondi significati: in casa il
nobile non vuole comandare né ubbidire, quindi si sottrae alla
"tirannia" esercitata dalla moglie e la compiace solo quando si tratta
di scrivere per lei una lettera indirizzata a un gran personaggio, per
quanto anche in questo rifiuti talvolta di darle il suo aiuto. Possiede
una biblioteca che conta circa trecento volumi (un numero considerevole
per l'epoca) e nella quale l'uomo trascorre molto tempo sprofondato
nelle sue letture, gloriandosi di essere esperto in vari campi del
sapere: l'autore passa in rassegna le opere più significative di questa
raccolta in cui emerge il carattere insulso della cultura dell'epoca,
dal momento che don Ferrante risulta particolarmente versato
nell'astrologia, nella filosofia antica (Aristotele è ovviamente la sua
autorità indiscussa, per quanto sia presente fra gli scrittori anche il
contemporaneo Cardano, autore di scarsissimo peso), nella naturalistica
(grande spazio hanno i descrittori di mirabilia
antichi e moderni), nella magia e nella stregoneria, nella storia,
nella politica (qui viene esaltato Valeriano Castiglione, scrittore del
XVII sec. di nessun valore) e soprattutto nella scienza cavalleresca,
dove il personaggio viene considerato una specie di autorità (è evidente
la polemica del Manzoni contro la concezione distorta dell'onore e
della cavalleria, fonte di tanti soprusi e ingiustizie all'epoca del
romanzo).
La sua morte per la peste viene narrata alla fine del cap. XXXVII
e anche questa è un'occasione per mettere in ridicolo le sue presunte
conoscenze "scientifiche" e il carattere insulso della filosofia
dell'epoca, all'origine di tante errate credenze riguardanti la
terribile epidemia: don Ferrante infatti nega risolutamente che
il contagio possa propagarsi da un corpo all'altro e si esibisce in un
complesso ragionamento che si appoggia sulla logica aristotelica
(rigoroso in sé, ma che ovviamente non tiene conto delle cognizioni
scientifiche e mediche inerenti al caso), quindi attribuisce la peste
agli influssi astrali e in particolare alla congiunzione di Giove e
Saturno, origine a suo dire dell'epidemia e contro la quale è
perfettamente inutile prendere precauzioni come quelle prescritte dai
medici, quali il bruciare i panni degli appestati e simili. Convinto di
queste considerazioni, don Ferrante non prende alcuna misura per evitare
il contagio e ovviamente si ammala di peste, andando a letto "a morire,
come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle", mentre le sua
"famosa libreria" è forse ancora "dispersa su per i muriccioli", ovvero
è stata venduta sulle bancarelle dei libri usati.
Nel Fermo e Lucia
il personaggio è inizialmente presentato come don Valeriano (III, 4),
ricco gentiluomo milanese sposato con donna Margherita e con un'unica
figlia, Ersilia, mentre in seguito (III, 9) il nome diventa quello poi
definitivo di don Ferrante e la moglie sarà ugualmente ribattezzata
donna Prassede. Nella prima stesura la presentazione della famiglia
nobile e la descrizione della vita di Lucia nella loro casa di Milano
sono assai più prolisse e ricche di personaggi secondari (il maggiordomo
Prospero, la governante Ghita incaricata di sorvegliare Lucia...),
parti poi eliminate nell'edizione finale dei Promessi sposi.
Altrettanto curioso il fatto che inizialmente la "dotta" disputa sulla
peste sia inclusa nella digressione storica sull'epidemia (IV, 3) e
inserita in un dialogo con un signor Lucio, altro nobile ignorante e
saccente che strepita contro i regolamenti del Tribunale di Sanità e
contro la scienza medica (l'episodio verrà poi drasticamente ridotto e
posto alla fine del cap. XXXVII, a margine del racconto della morte di
don Ferrante).
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