Padre Felice Casati

È il frate cappuccino a cui viene affidato il governo del lazzaretto durante la peste del 1630, assieme a padre Michele Pozzobonelli che gli fa da aiutante: personaggio storico (1583-1656), milanese, padre Felice Casati fu per due volte provinciale dell’Ordine e dopo essere scampato all'epidemia (si ammalò di peste e ne guarì) fu inviato nel 1644 a Madrid per ottenere dal re Filippo IV un alleggerimento delle tasse, dal momento che il paese era stremato dalla guerra e dai flagelli. Ciò gli valse molte inimicizie, tanto che fu mandato in Corsica per due anni malgrado le proteste dei suoi concittadini; nel 1656 fu eletto Custode generale e partì a piedi per Roma per partecipare a un'importante riunione, ma giunto a Livorno si ammalò e morì misteriosamente, fatto in cui alcuni vollero vedere la longa manus del governo spagnolo. Fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di quella città.
L'autore lo introduce nel cap. XXXI del romanzo, col dire appunto che a lui il Tribunale di Sanità affida la direzione del lazzaretto cui diventa sempre più arduo provvedere nel dilagare dell'epidemia, incarico che il cappuccino svolge con incredibile solerzia grazie anche all'aiuto di molti confratelli (Manzoni sottolinea i meriti straordinari degli ecclesiastici nel prendersi cura degli ammalati e dei bisognosi durante l'epidemia, spesso supplendo alle mancanze e all'incapacità del potere pubblico). Compare poi come personaggio autonomo nel corso del cap. XXXVI, quando guida la processione dei guariti destinati alla quarantena fuori del lazzaretto, fra i quali Renzo (che si è introdotto lì fortunosamente e vi ha incontrato padre Cristoforo) spera invano di trovare la sua Lucia: il frate rivolge un breve ma sentito discorso ai guariti, che viene attentamente ascoltato da Renzo e che è un raro esempio di oratoria appassionata e piena di sentimento religioso, nel quale invita i guariti a non gioire rumorosamente della loro fortuna e a provare compassione per quelli che restano in quel luogo di sofferenza, ringraziando Dio per la misericordia che è loro toccata. Il "mirabil frate" si avvolge poi una corda intorno al collo, in segno di umiltà, e dopo essersi inginocchiato chiede perdono agli ammalati se talvolta non è stato sollecito nel rispondere alle loro chiamate e a curarli con la necessaria solerzia, parole che suscitano la viva commozione di tutti i presenti, incluso Renzo. Il cappuccino poi si alza, solleva una gran croce e si toglie i sandali, precedendo scalzo il corteo dei guariti che conduce fuori dal lazzaretto, sotto gli occhi attenti di Renzo che non scorge Lucia tra quel gruppo di persone fortunate (egli troverà la ragazza poco dopo dentro una capanna, insieme alla mercantessa).
Attraverso la figura di padre Felice l'autore tratteggia un imponente ritratto di religioso totalmente dedito al prossimo e pronto al sacrificio assoluto di sé, molto simile allo stesso padre Cristoforo e in generale a tutti i cappuccini, fra i quali spiccano l'amore per il prossimo, l'abitudine all'obbedienza, la volontà di servire i poveri (non a caso lo stesso Cristoforo chiede di essere mandato a Milano per occuparsi degli appestati, morendo poi nel lazzaretto come si apprenderà nel cap. XXXVII).

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